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17 Gennaio 2022
11:00

Sfatiamo tutti i falsi miti sulla pizza: dal forno a legna alla margherita “calmierata”

"La vera pizza si fa solo a Napoli ed è solo napoletana", quante volte abbiamo sentito questa frase? Nel giorno del Pizza Day proviamo a sfatare tutti i falsi miti attorno al "piatto della felicità" degli italiani.

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Se c'è un piatto in grado di lavar via tutta la paturnia dei lunedì, è proprio la pizza: il World Pizza Day di quest'anno non poteva capitare in una giornata più indicata dunque, con una pietanza che ha il potere di mettere il sorriso su ogni giorno uggioso.

Perché proprio oggi il Pizza Day? Perché il 17 gennaio si celebra Sant'Antonio, il santo patrono dei pizzaioli. A questa imponente figura del cristianesimo sono legati tantissimi rituali, soprattutto a Napoli, e in fondo anche la pizza viene spesso vista come parte di un rituale. Quando nel 2017 l'arte del pizzaiuolo napoletano è stata inserita tra i beni protetti dall'Unesco, la motivazione ha ricordato molto quella dei rituali: "L’Arte tradizionale del pizzaiuolo napoletano è stata riconosciuta come parte del patrimonio culturale dell’umanità, trasmesso di generazione in generazione e continuamente ricreato, in grado di fornire alla comunità un senso di identità e continuità e di promuovere il rispetto per la diversità culturale e la creatività umana".

La bellezza intrinseca di tutti i rituali nasconde però anche tante incomprensioni, tanta chiusura mentale da parte di chi il rituale lo pratica tutti i giorni. Non ci riferiamo solo ai pizzaioli ma anche ai clienti che fanno parte di questo rito a piene mani. Troppo spesso gli italiani si arroccano dietro idee sbagliate e luoghi comuni legati alla pizza, prodotto che merita di essere rispettato e di essere portato in tutto il mondo con orgoglio e dignità. Vediamo di sfatare i più grandi miti ghe ruotano attorno a questo prezioso prodotto.

1. La pizza buona si fa solo a Napoli

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La Margherita di Ribalta

Il primo mito da sfatare riguarda un "diritto di cittadinanza" che non ha senso d'esistere: la grande forza della pizza è la sua replicabilità, una caratteristica che l'ha portata in tutto il mondo (con risultati più o meno soddisfacenti). Bisogna ammettere che per tanto tempo abbiamo visto dei dischi pasta obbrobriosi a causa dell'approssimazione di emigranti e finti maestri, ma ormai da oltre un ventennio la pizza è uscita da questa gabbia.

Innanzitutto bisogna parlare dei tanti stili di pizza presenti in Italia, dalla celebre pizza romana scrocchiarella alla pizza canotto che sta spopolando negli ultimi tempi. Se vogliamo restare nei limiti della massa e quindi concentrarci sulle tonde che "ricordano" o sono napoletane, ancora oggi c'è un malcostume: solo nella città partenopea si può fare un buon prodotto. Nulla di più sbagliato perché, ad esempio, nelle due guide più importanti d'Italia non è Napoli ai vertici: nella Guida Pizzerie del Gambero Rosso al vertice ci sono un casertano, Franco Pepe, e un veronese, Simone Padoan; nella 50 Top Pizza vince Francesco Martucci, di Caserta, seguito proprio dal partenopeo Diego Vitagliano. In realtà bisogna ammettere che Napoli, come ogni città a trazione turistica, vive un grande periodo di appannamento nella proposta ristorativa media e di questo segmento fa parte anche la pizzeria.

Allontanandoci sempre più dall'epicentro della pizza mondiale ci accorgiamo di realtà incredibili: è il caso di Cristian Puglisi, messinese che ha lasciato la cucina del Noma (ristorante numero 1 al mondo) per aprire un suo locale, o dei napoletani emigranti come Peppe Cutraro e Nicola Iovine a Parigi, di Francesco Calò a Vienna, o di Pasquale Cozzolino a New York. Proprio quest'ultimo ci ha detto che "a Napoli ci sono ottime pizze ma anche tanta approssimazione. Quando torno a casa non cerco la pizza, cerco latticini e pesce fresco perché sono cose che non riesco a ritrovare in America. La pizza è replicabile, ‘na bella alice fritta invece no".

Cozzolino è il pizzaiolo e socio (con Rosario Procino) di Ribalta, 3 Spicchi Gambero Rosso e tra i locali segnalati in Guida Michelin a New York. Nella Grande Mela ci sono tantissime pizzerie di grande livello "ma quando ho cominciato, nel 2011, eravamo solamente in due, la mia e quella del mio attuale socio": così racconta il pizzaiolo dei Quartieri Spagnoli che in America è diventato una vera e propria star grazie a un bestseller. Cozzolino ha pubblicato nel 2017 una sorta di "dieta della pizza" dal titolo "The Pizza Diet: How I Lost 100 Pounds Eating My Favorite Food — and You Can, Too!": questo volume lo ha portato in prima pagina del New York Post facendolo diventare uno dei pizzaioli più famosi di tutti gli Stati Uniti.

Le basi "scientifiche" che hanno portato il libro alla fama sono da ricercare nella differenza tra le pizze americane e quelle che fa Pasquale Cozzolino: "I nostri clienti abituali sono giovani, donne e uomini attenti a una vita salutare. Adorano la nostra pizza e la mangiano spesso perché hanno capito che la pizza napoletana fa bene ed è buonissima. La slice pizza americana è considerata, a ragione, alla stregua dei fast food, la nostra invece fa parte della Dieta mediterranea".

La qualità del prodotto proposto da Ribalta si ottiene grazie "a ingredienti che mi faccio arrivare dall'Italia, come il pomodoro nostro o la mozzarella; con l'acqua, che è un grande falso mito, devo invece fare un processo di vaporizzazione prima dell'impasto perché l'acqua di New York è piena di cloro". Il risultato è strabiliante e "in dieci anni, oltre ai successi di Ribalta, abbiamo visto aprire centinaia di pizzerie napoletane in tutta la nazione, sintomo dell'affetto che il pubblico nutre nei nostri confronti". Molte di queste pizzerie sono di grande livello. Pasquale Cozzolino, un napoletano a New York, non ha dubbi: la pizza di qualità si trova in tutto il mondo.

2. Per fare la pizza serve "l'acqua di Napoli"

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La Margherita di Salvatore Kosta

Pasquale Cozzolino ha citato l'acqua a ben ragione: non ce ne accorgiamo ma la qualità del liquido fa una grande differenza sulla riuscita di un impasto. Per anni i vecchi pizzaioli napoletani hanno detto che "l'acqua di Napoli è l'unica buona per fare le pizze" e probabilmente avevano ragione all'epoca: l'acqua della città era ferrosa, la famosa acqua che ha dato vita alla "limonata a cosce aperte", e questo era utile per gli impasti, benché non proprio salutare.

Oggi non è più così, come ci spiega Salvatore Kosta, un professore più che un semplice pizzaiolo: "L'acqua è fondamentale perché è lei che attiva tutto il processo dell'impasto. Rende disponibili gli zuccheri, li muove, fa in modo che gli zuccheri entrino a contatto con i liquidi". Il pizzaiolo di Foorn, a Mariglianella, in provincia di Napoli, sottolinea che l'acqua di Napoli non ha alcun merito ma che "le acque variano e presentano delle sostanze chimiche, dei sali minerali, in grado di alterare l'impasto. La cosa importante è capire la durezza dell'acqua".

Questo parametro influisce "sulla tenacità dell'impasto perché l'acqua contiene zinco e ferro, degli ioni positivi, che creano i legami durante l'impasto. Quando c'è un'alta concentrazione di queste sostanze l'impasto diventa tenace e un impasto tenace si sviluppa poco in cottura ed è molto difficile da maneggiare. Questo parametro era molto importante in passato perché l'impasto era fatto a mano, oggi con le impastatrici è quasi ininfluente ma bisogna stare in un range specifico per non rovinare la pizza. Un impasto troppo duro non sviluppa alveolatura, un impasto troppo molle si rompe in cottura. Per conoscere il parametro basta vedere i gradi francesi (l'unità di misura della durezza dell'acqua) segnalati dagli acquedotti di zona. Per essere nei parametri devono essere compresi tra i 5 °f e i 20 °f".

Sottolineiamo che l'acqua influisce solamente sulla consistenza dell'impasto, mai sul sapore perché le sostanze volatili non reggono alla temperatura di cottura che si aggira attorno ai 480 °C.

3. La pizza va cotta solo nel forno a legna

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La cottura della pizza è fondamentale perché necessita di temperature davvero importanti che, per tanti anni, sono state replicabili solo nel forno a legna. Oggi non è più così e una pizza tradizionale può essere cotta indistintamente nel forno elettrico o nel forno a gas. Questo sempre per restare all'idea di pizza comune, quella da cartone animato, perché possiamo citare la pizza in teglia per fare un esempio di grande pizza tradizionale cotta nel forno elettrico.

Tra i migliori pizzaioli ad usare un forno diverso da quello a legna c'è Vincenzo Onnembo, che durante la pandemia è diventato famoso per aver proposto una pizza surgelata incredibilmente buona, rompendo uno dei più solidi tabù della tradizione italiana. Il pizzaiolo nella sua nNea ad Amsterdam ha un forno a gas: è molto difficile avere i permessi di installare i forni a legna. Spesso all'estero troviamo queste soluzioni che sono "assolutamente plausibili. quando si parla di cottura è importante parlare del materiale di costruzione del forno, quindi della pietra: la cottura la svolge il calore che la pietra rilascia e che la camera contiene" dice Onnembo, anch'egli 3 Spicchi Gambero Rosso. Il pizzaiolo ci tiene a precisare che i metodi per scaldare quella pietra liscia possono arrivare tramite il fuoco o tramite delle resistenze, l'importante è solo "avere la giusta temperatura".

La forza dei forni a gas "sta nella pulizia, perché sappiamo come amministriamo la legna e quanto è difficile pulire bene un forno di questo tipo. Il sapore leggermente affumicato che si sente ogni tanto non viene dal fumo ma dalla mancata pulizia della platea. Molti pensano che sia tradizionale, verace, e io stesso sono un ‘mangiatore di pizze sbagliate' ma se guardiamo al mondo della pizza contemporaneo dobbiamo solo ammettere l'evoluzione e il miglioramento. Oggi quel sapore è considerato giustamente un errore".

La cottura della pizza è il prossimo passo in avanti richiesto ai grandi maestri: gli impasti hanno raggiunto uno standard elevato, le cotture ancora no; ed è un peccato perché "spesso la temperatura della camera alta rispetto a quella della pietra ci dà una pizza gonfia, cotta ovunque ma non alla base. Un grave errore: la base è quella a contatto con il condimento, quindi è importantissima. Facendo così ci troviamo con fette cotte male, che non reggono il peso degli ingredienti e che danno problemi di digeribilità".

Per Vincenzo Onnembo l'unico forno che "uscirà vincitore" dalla sfida "sarà quello elettrico, perché più sostenibile. Il gas ha subito un'impennata nel prezzo impressionante. Il problema dei forni a gas o elettrici sta solo nelle performance: la grande forza del legno sta nel calore costante, che è difficile da avere con gli altri metodi. Col forno a gas siamo schiavi della fiamma, deve essere sempre viva per creare questa sorta di vento caldo nella camera, un'operazione che nel forno a legna viene svolta dalla brace. Il forno elettrico invece fatica con i numeri alti: ma i produttori stanno facendo passi da gigante. L'obiettivo dei fornai deve essere comunque uno solo: con qualsiasi macchina, dobbiamo fare la stessa cosa. Gas, elettricità, legna? No, è la pietra a cuocere la pizza".

4. La Margherita deve costare 3 euro

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La Margherita Cosacca di Roberta Esposito

Il costo della materia prima sta influendo sul costo della vita di tutti. Ce ne accorgiamo con le bollette, ce ne stiamo accorgendo col caffè, anche la pizza subisce queste variazioni. Una delle migliori pizzaiole d'Italia, Roberta Esposito, 3 Spicchi Gambero Rosso, della Margherita ne ha fatta una questione di principio: in carta, praticamente da sempre, l'ha declinata in tutti i modi portando al cliente ben sette diverse varianti della regina delle pizze. Il costo della Margherita tradizionale è di 6 euro "e non può costare meno se la fai seguendo dei criteri ideologici" dice la titolare della Contrada ad Aversa, in provincia di Caserta.

L'ideologia citata da Esposito è nel rispetto del cliente e del lavoratore: "Se decidi di usare solo farine di qualità, solo pomodoro San Marzano buono, solo fiordilatte di Agerola che non perde la consistenza in cottura, solo un olio extravergine che esalta tutti gli ingredienti, il costo lievita. In più penso che nel prezzo finale bisogni contare anche la professionalità di chi questa pizza la fa, il tempo trascorso a studiare di chi ci mette le mani in pasta e di chi lavora davanti a un fuoco". Il discorso portato avanti da Roberta Esposito è semplice ed efficace: per un prodotto di qualità, tutto deve essere fatto secondo regola. Il food cost incide tantissimo sulla Margherita, è la pizza in cui il margine è minore ed è quella più venduta, quindi è importante "calcolare bene il piatto, inteso come porcellana, in cui viene servita, tutta l'apparecchiatura della tavola, il lavoro della sala, l'estetica del locale, le tasse. Tutto incide sul prezzo finale: se dovessi trovare altrove una Margherita di qualità ad un prezzo superiore, pagherei quei soldi ben volentieri".

5. L'unica vera pizza è quella tonda napoletana

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La parmigiana di Bricks– Crema di melanzante grigliate, pomodoro pelato biologico “paglione”, scaglie di pecorino e stracciatella di latte vaccino.

Finora abbiamo girato il mondo incontrando pizzaioli che partendo da una base tradizionale hanno espresso il loro potenziale portando ai clienti diverse versioni di uno stesso piatto. Come possiamo essere convinti che l'unica vera pizza sia quella napoletana, se all'interno della stessa città ci sono tante maniere di concepirla? Come dice Carlo Ricatto, titolare di Bricks a Torino, "la pizza rappresenta uno dei patrimoni culinari italiani e non possiamo ridurla a una diatriba campanilistica anche perché così avremo sempre la nonna che fa le cose più buone".  Anche l'indirizzo torinese parte dalla base napoletana ma reinterpreta la tradizione "dando un tocco di eccentricità e contemporaneità negli ingredienti e nel servizio". Secondo Ricatto la cosa più importante è "non scimmiottare il prodotto, ma essere credibili e utilizzare, ove possibile, prodotti locali per identificarsi col territorio, senza però estremizzare il concetto di chilometro zero. Voglio ambire a creare una pizza rappresentante del proprio territorio".

Brick è un locale molto torinese nel modo di proporsi, con quel misto di raffinatezza e modernità che solo la città di Rita Levi Montalcini riesce a unire con tanta grazia, ed è per questo che "saremmo stati poco credibili, per non dire ruffiani, se avessimo voluto proporre una pizza napoletana visto che legami con Napoli non ne abbiamo. Da imprenditore penso sia fondamentale conoscere la propria clientela e cosa si aspettano: oggi non basta più parlare delle farine o delle lievitazioni infinite, oggi i clienti vogliono percepire questa qualità al palato, senza tante menate al tavolo. Vogliono godere, essere appagati, senza interrogarsi su pizze napoletane, romane, torinesi o altro". Secondo Ricatto la pizza "ha bisogno del var, tanto per fare un paragone calcistico: voglio che i complimenti arrivino il giorno dopo perché solo una pizza fatta a regola d'arte ti permette di dormire bene. Da torinese mi approprio di un detto napoletano e dico che ha dda passà ‘a nuttata per giudicare una pizza".

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A cura di
Leonardo Ciccarelli
Nato giornalista sportivo, diventato giornalista gastronomico. Mi occupo in particolare di pizza e cocktail. Il mio obiettivo è causare attacchi inconsulti di fame.
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