29 Settembre 2021 12:50

Gli acquafrescai napoletani: l’ultimo avamposto del teatro “itinerante” di De Filippo

Acqua frizzante, un limone spremuto e un pizzico di bicarbonato quasi lanciato nel bicchiere dell'ignaro turista: la reazione è immediata, un passo all'indietro, saltello per divaricare le gambe e tutto giù. Questa è la "limonata a cosce aperte", la bevanda più celebre degli acquaioli napoletani. Oltre al folklore c'è di più, per una storia che affonda le proprie radici nella miseria e che oggi è diventata una professione da preservare. Carolina Guerra ha uno dei chioschi più antichi di Napoli, a piazza Trieste e Trento dal 1836: lei, che si fa chiamare 'a zia, è acquafrescaia da generazioni. In questo video, mentre ci racconta la sua storia e il suo mestiere, mostra la sua immensa passione non solo per il lavoro, ma anche per le relazioni che stabilisce con le persone che si fermano al suo chiosco.

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Se siete stati a Napoli avrete sicuramente notato, sparsi per la città, dei minuscoli gazebo grondanti di agrumi, con all'interno uomini e donne stipati in spazi angusti. Sono gli acquaioli partenopei, una professione antichissima e ormai in disuso, che resiste solo grazie a piccoli artigiani della sete.

L'esperienza è davvero affascinante: hanno tutti degli spremiagrumi molto vecchi e offrono per pochi euro degli intrugli davvero rinfrescanti, su tutti la "limonata a cosce aperte" e il "sarchiapone". Abbiamo parlato di "esperienza" non a caso: gli acquafrescai sono dei performer che rappresentano la Napoli più verace, quella raccontata perfettamente da Eduardo De Filippo. Il grande maestro un giorno disse una frase meravigliosa a proposito della sua città: "Napule è ‘nu paese curioso: è ‘nu teatro antico, sempre apierto. Ce nasce gente ca senza cuncierto scenne p' ‘e strate e sape recità", che tradotto significa: "Napoli è una città curiosa: un teatro antico e sempre aperto. Qui nascono persone che senza aver studiato, scendono per strada e sanno recitare". I chioschi degli acquafrescai sono come dei teatri, le serrande il loro sipario, gli acquaiuoli le loro maschere.

Carolina Guerra ha uno dei chioschi più antichi di Napoli, a piazza Trieste e Trento dal 1836: lei, che si fa chiamare ‘a zia, è acquafrescaia da generazioni. In questo video, mentre ci racconta la sua storia e il suo mestiere, mostra la sua immensa passione non solo per il lavoro, ma anche per le relazioni che stabilisce con le persone che si fermano al suo chiosco.

Questi gazebo e i teatri hanno anche un'altra cosa in comune: anticamente c'era un chiosco in ogni quartiere di Napoli, oggi sono quasi spariti. L'acquafrescaio napoletano è come un higlander che ogni sera, alla chiusura della propria serranda, ha la consapevolezza di essere uno degli ultimi sopravvissuti della città.

La tradizione dell'acquaiuolo e dei chioschi napoletani risale al 1700 con i primi "bibitari" che aromatizzavano l'acqua ferrata con limone e bicarbonato. Sono diventati col tempo un vero e proprio simbolo della città, consacrati nel 1992 da James Senese e dal gruppo Napoli Centrale. "Acquaiò, l'acqua è fresca?" cantava la rock band, "manco ‘a neve" la risposta degli acquafrescai, ovvero "nemmeno la neve è fresca come la mia acqua".

Ma cos'è e cos'era l'acquafrescaio? Molto semplicemente si trattava di un venditore ambulante di acqua che anticamente girava per le strade della città con delle grosse anfore di creta sigillate dai tappi di sughero. I recipienti, chiamati mummare, riuscivano a tenere l'acqua in fresco per dodici ore. Il compito dell'acquaiolo era semplice: rinfrescare il popolo napoletano dall'arsura estiva.

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Oggi non è più così e, quei pochi rimasti, portano nel cuore una napoletanità sincera e lontana dagli stereotipi, molto più eduardiana, nella sua accezione malinconica di chi fa qualcosa di necessario per preservare l'anima di un luogo.

La storia e la tradizione degli acquafrescai napoletani

Il mestiere dell'acquaiuolo è antichissimo e oggi, nella sua versione più arcaica e quindi in giro per la città, resiste solo nei grandi mercati rionali e all'esterno dello Stadio Maradona, durante le partite di calcio. Ci sono ancora pochi e caratteristici chioschi a tenere viva questa tradizione negli stessi claustrofobici gazebi ricavati dagli anfratti dei palazzi antichi, ereditati di generazione in generazione fino ad oggi. Un gioiello preziosissimo perché carretti e capanni rappresentavano il lavoro stabile, il bene essenziale, quella fatica che è sempre mancata tra le strade più povere di Napoli.

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Foto di Eleonora Furlani

Questo lavoro nasce proprio per ovviare a questo problema: cercare di risolvere la crisi del lavoro giovanile. I primi acquafrescai erano infatti dei ragazzi, tra i 15 e i 25 anni, alla ricerca di uno sbocco generazionale in una città in espansione ma completamente analfabeta e senza speranza occupazionale. Grazie a mestieri semplici e artigianali molti riuscivano a trovare una risorsa per portare il pane a tavola, ma non tutti avevano la manualità per fare certi lavori delicati. Tra questi, i più intraprendenti del Settecento, erano i primi acquaioli. Questi ragazzi si svegliavano la mattina presto, molto presto, per caricare sul carretto le anfore e i barilotti pieni d'acqua. Ovviamente si trattava di un lavoro prettamente estivo, il periodo dell'anno in cui l'arsura del Mezzogiorno diventava insostenibile e la città si riempiva di turisti. Quest'ultimi, per poche "piastre" – la moneta borbonica di minor valore – si assicuravano una salutare bevuta di acqua fresca.

Si dice che i migliori acquaioli fossero di Santa Lucia, l'angolo di Napoli che ha dato vita ai polipetti alla luciana, perché la cosiddetta acqua delle mummarelle che tutti amavano sgorgava proprio dal Monte Echia, lo spuntone roccioso di tufo giallo alle porte di Pizzofalcone. Queste sorgenti sono rimaste attive fino al 1973, anno in cui scoppiò il focolaio di colera che costrinse il comune a chiudere le fonti di acqua sulfurea. Riaperte nel 2000 tramite delle fontanelle site poco lontano, hanno resistito solo 3 anni e oggi vivono nel più totale abbandono. Le acque sulfuree dell'Echia erano molto dannose per la salute: qualche tempo fa è stata trovata una nuova sorgente, nei pressi del porto, con la stessa acqua bevuta nei secoli scorsi. Ebbene, la ferrosità di quell'acqua ha arrugginito e corroso le pareti con il trascorrere del tempo e, dopo i rilevamenti degli archeologi, si è giunti alla conclusione più scontata: quest'acqua fa male.

All'epoca però tutto ciò non si sapeva e i napoletani andavano ai matti per quest'acqua venduta nelle anfore e nei choioschetti. Come la storia del calabrone che non può volare ma non lo sa. Quasi tutti gli acquafrescai napoletani che oggi resistono nei chioschi hanno avuto degli avi che hanno cominciato in questo modo.

Non esiste, né è mai esistito un gazeb0 senza mummarelle. Lo "scatto" di professione, da lavoro itinerante a lavoro stabile, è però riuscito solo ai più bravi, a quelli con la mente più imprenditoriale, a quelli che durante le estati borboniche riuscivano ad accumulare piccole fortune piazzandosi strategicamente in prossimità delle cerimonie religiose o delle strade ricche della città. In questo modo sono riusciti a comprare le piccole edicole in cui svolgere le proprie attività.

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Il chiosco dell'acqua fresca, la celebre "banca dell'acqua" come viene chiamata a Napoli, era un traguardo, un esempio di arrampicata sociale vera e propria: dava la garanzia del posto fisso per sé e per tutta la propria discendenza. Nei testamenti non è raro trovare minacce agli eredi nel caso di vendita del chiosco. Questo luogo di proprietà era segno anche di prestigio sociale oltre che di importanti guadagni.

Il fiorire dei chioschi porta alla lenta e inesorabile estinzione dei garzoni, con loro anche le mummarelle ebbero le ore contate. In breve tempo divennero solo oggetti "di scena", un bel pezzo di arredamento da esporre all'esterno del gazebo per attirare i clienti. Non c'era più bisogno di loro perché le capannelle nascevano in posti molto particolari della città: i chioschi, infatti, sfruttavano gli ipogei greci che caratterizzano il centro storico di Napoli così da avere degli immensi depositi freschi per l'acqua. E così, se le bibite restano fresche, le anfore non sono più necessarie.

A piazza Trieste e Trento, nei pressi del Real Teatro San Carlo, c'è la più vecchia "banca dell'acqua" ancora in attività, datata 1836: sul pavimento potete notare una sorta di botola, quello è un vecchio ipogeo greco. Praticamente gli acquaioli napoletani usavano, senza saperlo, lo stesso sistema dei Greci e dei Romani per tenere l'acqua ad una temperatura gradevole: anfore di terracotta e "fosse" di pietra; i più fortunati utilizzavano dei "frigoriferi" ricavati da alcune cavità, con le pareti d'argilla, come si faceva a Pompei.

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Ma cosa si beveva in questi chioschi? Acqua naturale e frizzante ovviamente, ma anche altre tipologie di bevande: la più comune era l'acqua annevata, conservata nei blocchi di ghiaccio; c'erano poi le acque di mare o di fiume e l'acqua addirosa, ovvero aromatizzata al vino; molto apprezzata l'acqua di rose, usata per fare la pastiera, e l'acqua suffregna, ovvero sulfurea, detta anche ferrata. Questa era sicuramente la più consumata, quella proveniente dal Monte Echia, perché aveva un forte sapore ferruginoso ed era carica di sali minerali (non tutti "buoni", come abbiamo poi scoperto).

La grande intuizione fu quella di aromatizzare l’acqua ferrata con limone e bicarbonato creando la famosa "Limonata a cosce aperte", una bevanda che erutta a causa della reazione chimica che si innesca tra il limone e il bicarbonato "picchiato" nel bicchiere. Il riflesso immediato dei clienti è quello di fare un saltello all'indietro e allargare le gambe così da salvare le scarpe dagli schizzi; da qui il nome. Non si sa chi abbia inventato questa bevanda geniale, ma nel 1700 era una tradizione già consolidata, nata per aiutare la digestione. Un'altra bevanda molto apprezzata era il sarchiapone, un drink dalla storia molto particolare.

Il sarchiapone è un insulto, ma è anche buonissimo

Se a Napoli vi dicono che siete dei sarchiaponi non vi stanno dicendo una cosa carina. Il sarchiapone è una persona goffa, un po' stupida, sicuramente ingenua; si dice anche agli oggetti grossi e inutili o ai cibi talmente pesanti da diventare indigesti. L'unico sarchiapone buono è proprio quello da bere, composto da acqua, ghiaccio, bicarbonato e limone, la specialità degli acquafrescai.

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La parola è apparsa per la prima volta ne "Lo cunto de li cunti" di Giambattista Basile, un libro del Cinquecento che ha dato origine a tantissime fiabe, su tutte quelle di Cenerentola. Il vocabolo compare anche nella "Cantata dei Pastori" di Andrea Perrucci del 1698. In entrambi i casi il riferimento era a qualcosa di pesante e ingombrante.

La nascita della bevanda è avvolta nel mistero e pare che sia stato ideata da un chiosco di Piazza Carlo III che avrebbe modificato il più tradizionale sciacquapanza" un digestivo molto simile al seltz, limone e sale di Catania. Anche in questo caso la reazione immediata è allargare le gambe perché un sarchiapone fatto a regola d'arte si compone di un bicchierino di acqua frizzante col limone, del ghiaccio e una puntina di bicarbonato che reagisce producendo tantissime bollicine. Questa nuova ricetta, secondo il non ben definito acquafrescaio partenopeo, sarebbe così potente da far digerire "nu sarchiapon".

Il drink è davvero gustoso, da bere più lentamente rispetto alla limonata a cosce aperte perché il ghiaccio attutisce il potere esplosivo del bicarbonato che dona alla preparazione un piacevole retrogusto minerale. L'esperienza va ben oltre il mero bere qualcosa: assaporare queste bevande, accostarsi a questi luoghi e scambiare quattro chiacchiere con gli acquaioli ci catapulta direttamente in un tempo che ormai non è più, un periodo storico cupo forse, ma davvero genuino. Ci fa sentire a casa e al contempo ci fa sentire parte di una storia, di una tradizione, di una scena. L'acquafrescaio napoletano ha l'anima di Eduardo De Filippo ma il corpo e la voce degli spettacoli di Broadway, dove anche gli spettatori sono protagonisti della commedia dell'arte.

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Quello che i piatti non dicono
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