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10 Aprile 2020 11:00

Viaggio sulla Via Emilia: il culto della pasta fresca in 36 formati diversi

La Via Emilia con le sue sfogline ha fatto la storia della gastronomia italiana. Decine di sughi, di condimenti, di ripieni per i 36 formati di pasta fresca diversi lungo i 165 chilometri che uniscono Rimini e Piacenza. In media fa un formato diverso ogni 4 chilometri e mezzo, un'ossessione per la pasta che ci rende orgogliosi di essere italiani.

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Un viaggio virtuale in Emilia Romagna alla ricerca delle sfogline, le infaticabili signore che lavorano la pasta artigianalmente seguendo l’antica tradizione. In questa regione la pasta fresca è una religione e ogni città ha varianti, segreti e storie diverse che si tramandano di generazione in generazione per via orale, come i miti ancestrali.

Abbiamo deciso quindi di partire, come Troisi in Ricomincio da 3: "pe viaggià, pe cunoscer". Non con l’autostop come il maestro napoletano, ma con la fantasia: ci siamo catapultati nella regione di Enzo Biagi, di Lucio Dalla, di Massimo Bottura, di Federico Fellini, sulla Via Emilia alla scoperta della pasta fresca e dell'universo di ricette che le ruotano attorno.

La storia della pasta in Emilia Romagna

Mettiamo su Spotify con la musica di Nino Rota e partiamo alla volta di Rimini, proprio la città di Fellini. La pasta emiliano-romagnola è l’amarcord di una regione che rifiuta l’industria alimentare e sogna ancora un futuro in bianco e nero: con la farina che svolazza imbiancando le sfogline-sacerdotesse del cibo.

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A differenza delle altre regioni, qui la pasta fresca è ancora un culto e trova la massima espressione nel rito della stesa.

Le tracce documentate sulla pasta partono dal IV secolo a.C., passano per il "De arte Coquinaria" che tratta di vermicelli e maccaroni siciliani del ‘400, per arrivare alla rivoluzione industriale avvenuta a Napoli nel XVII secolo.

In mezzo a questo trambusto ci sono sempre state le città della via Aemilia – la strada costruita dai Romani che collega Piacenza e Rimini – insieme a 36 tipi di pasta che ci hanno fatto innamorare e che abbiamo selezionato. Un itinerario che parte da Rimini e arriva a Piacenza per 165 chilometri, che divisi i 36 formati di pasta fanno un formato ogni 4 chilometri e mezzo: l'ossessione emiliano-romagnola.

Gli orecchioni di Rimini

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Nella capitale italiana della movida estiva troviamo gli orecchioni, detti anche urciòn in dialetto romagnolo. Si tratta del primo piatto tradizionale delle feste a Rimini. In realtà sono dei ravioli, con la forma allungata. La versione tradizionale del ripieno riminese è col sugo di carne ma da provare è la ricetta con burro fuso profumato con salvia e insaporito con abbondante parmigiano grattugiato: gli orecchioni buti e selva.

I cappelletti, i ravioli e le lasagne verdi di Cesena

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Seconda città sulla Via Emilia, sempre in Romagna. Se Rimini è legata alla storia del cinema, Cesena è legata alla storia del calcio perché qui nacque Arrigo Sacchi, un rivoluzionario. A pranzo nel nostro viaggio abbiamo l’imbarazzo della scelta: cappelletti, ravioli o le tipiche lasagne verdi; nel dubbio prendiamo tutto.

I cappelletti sono immancabili nei giorni di festa e vengono preparati con squacquerone, ricotta, parmigiano, noce moscata e la scorzetta di limone grattugiata. Tradizionalmente serviti in brodo, negli anni ‘50 grazie al boom economico è diventata d'uso comune anche la versione col ragù di carne.

Per quanto riguarda i ravioli, qui sono classici quadrati e ripieni di spinaci o erbe di campo e ricotta; piatto povero e semplice. Molto caratteristiche sono invece le lasagne, simili alle altre dell’Emilia Romagna ma con il colore verde dovuto all’aggiunta di spinaci nella preparazione della pasta, cosa che dona loro un sapore e un aspetto unico.

I cappelletti romagnoli a Forlì

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La città di Pellegrino Artusi è un luogo di culto per ogni amante della cucina italiana. Qui ci fermiamo nuovamente per i cappelletti romagnoli. Proprio al maestro ci affidiamo per il ripieno. Nel suo "La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene" ci sono i cappelletti all'uso di Romagna, con ripieno a base di ricotta (o ricotta e raviggiolo), petto di cappone o lombata di maiale, da cuocere nel brodo di cappone.

I cappelletti a Faenza

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Piccola deviazione, verso Ravenna. Prima di arrivare nel capoluogo ci fermiamo nel faentino perché qui dobbiamo provare assolutamente i cappelletti senza carne. La pasta fresca tipica di Faenza ha un ripieno (il batù) di formaggi morbidi, parmigiano e noce moscata, si consumano in brodo esclusivamente di pollo.

La spoja lorda a Ravenna

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Giungiamo nel capoluogo per provare la minestra per eccellenza della Romagna: la spoja lorda, letteralmente “sfoglia lorda”. Questo piatto sarebbe nato a Brisighella, uno dei borghi più belli d’italia, probabilmente per recuperare la pasta inutilizzata dei cappelletti. In passato si allungava il ripieno dei cappelletti romagnoli col latte e si spalmava sulla sfoglia che veniva “lordata” dal ripieno. Per questa pasta fresca si usa lo squacquerone, un formaggio stagionato a propria scelta, le uova, la noce moscata e il latte per far diventare il tutto una vera crema. La spoja lorda e questa crema cucinate insieme prendono il nome di “mnëstra imbutìda” ovvero “minestra imbottita”.

Cappellacci e caplit degli Este a Ferrara

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Prima di rimetterci sulla Via Emilia, passaggio a Ferrara, una città che ha una gastronomia molto caratteristica legata alla sua storia. La cucina ferrarese è infatti influenzata da quella veneta grazie agli Este, la famiglia che ha regnato in città per larga parte della propria storia.

La cucina estense copre dall’antipasto al dolce e i primi più rappresentativi, a sorpresa, non sono di pasta fresca. Il piatto per eccellenza di Ferrara è infatti il pasticcio di maccheroni alla ferrarese, un involucro di pasta frolla con all’interno maccheroni, ragù, besciamella e tartufo. Ma la pasta fresca si difende alla grande anche qui e, infatti, troviamo i cappellacci di zucca noti anche come cappellacci estensi. L’origine di questo piatto abbraccia la tradizione culinaria delle paste ripiene dell’Italia Settentrionale e risale addirittura a una ricetta del 1585, firmata Giovan Battista Rossetti, cuoco durante il regno del duca Alfonso II d’Este.

I caplit invece sono i cappelletti ferraresi: uguali nella forma agli altri cappelletti romagnoli, differiscono nel ripieno. Qui troviamo maiale, petto di vitello, salame, macinato di manzo, mortadella, parmigiano e noce moscata. Qualcuno azzarda con un misto di parmigiano e pecorino romano, ma i tradizionalisti aborrono questa scelta.

L’imbarazzo della scelta a Bologna

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Lasciata Ferrara torniamo sulla Via Emilia e arriviamo a Bologna. Qui Baggio ha ritrovato la via del gol e Lucio Dalla ha inciso pagine della storia della musica. Quando ci fermiamo per assaggiare le tagliatelle sotto i porticati risuona ancora “Santi che pagano il mio pranzo non ce n'è sulle panchine in Piazza Grande”. La leggenda narra che, per questo formato di pasta iconico, il suo creatore si sia ispirato alla bionda chioma della donna amata.

L’altra pasta fresca tipica e celeberrima di Bologna è la lasagna. Una sfoglia di pasta all’uovo quasi trasparente che accoglie  il ragù bolognese, la carne macinata, la besciamella, il burro e dell’ottimo Parmigiano Reggiano. Il capoluogo emiliano è così goloso da aver ideato anche una variante verde, stesso condimento ma impasto agli spinaci.

Il medesimo impasto verde è usato anche per i balanzoni, ispirati alla maschera locale del Dr. Balanzone. Simili ai tortellini nella forma, ma più grandi e panciuti, sono ripieni di spinaci, mortadella, ricotta e noce moscata, di solito serviti con burro e salvia. Anticamente consumati durante il periodo del carnevale, vengono chiamati anche “tortelli matti”, questo perché nati per riciclare gli avanzi di ripieno dei più famosi tortellini. A Bologna c’è un vero culto dei formati “di riciclo” e, oltre ai balanzoni, troviamo i maltagliati e gli strichetti.

I primi derivano dalle tagliatelle perché, quando si fanno in casa, resta sempre una piccola parte di sfoglia, di solito i bordi, che viene tagliata grossolanamente per ricavarne dei pezzetti di pasta volutamente disomogenei, i “mal-tagliati” appunto. Anche lo spessore è diverso l'uno dall'altro, trattandosi della parte esterna della sfoglia. Il piatto classico per usare questa pasta a Bologna è la minestra di fagioli ma esistono comunque numerose ricette, per lo più povere, che ne prevedono il loro utilizzo.

Gli strichetti sono i “cugini” dei cappelletti invece: capitava spesso che le rezdore, le sfogline emiliane, facessero grandi quantità di pasta sfoglia per essere certe di consumare tutto il ripieno preparato in precedenza. Altrettanto spesso, il ripieno terminava prima della pasta, magari già tagliata a quadratini: per non buttarla, sono nati gli strichetti. Il nome deriva dal dialettale stichèr, ossia stringere. I quadratini venivano pizzicati al centro per formare una specie di papillon di pasta da gustare a piacimento. Sono gli antenati delle farfalline.

Teoricamente la gita a Bologna sarebbe finita ma voi direte che abbiamo dimenticato i tortellini. L’argomento è delicatissimo perché ci sono due scuole di pensiero: una vede il tortellino nascere a Bologna, l’altra a Modena.

A Modena, in pellegrinaggio da Bottura

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In questo viaggio scegliamo, arbitrariamente, di assegnare i tortellini a Modena. Lo facciamo perché uno dei cuochi migliori della storia ha reso i tortellini un piatto d’alta cucina. I tortellini di Bottura camminano sul brodo, leggiadri, verso la storia: “Per i modenesi, un piatto di tortellini non ne contiene mai abbastanza. Così, ho pensato di attirare l’attenzione sulla qualità della pasta e del ripieno presentandone sei che camminano su un sottile strato di brodo di cappone, addensato con una punta di agar-agar. Sarebbero stati divorati con lo stesso fervore religioso riservato a una fondina traboccante”, racconta il cuoco de L'osteria Francescana nella prima puntata di Chef’s Table.

Anche i tortellini più classici hanno una bella storia però: eredi di una lunga progenie di pasta nata dai poveri per riciclare la carne dei ricchi, un po’ come per il soffritto napoletano. La prima traccia dei tortellini è racchiusa addirittura in una pergamena datata 1112 ma è molto più nota la leggenda dell’oste che, sbirciando dal buco della serratura della stanza di una sua ospite, resta così colpito dalla bellezza del suo ombelico da volerlo riprodurre in un piatto.

A Modena, oltre ai tortellini, troviamo poi tutta la declinazione: tortelli, generalmente preparati con la zucca, e tortelloni, più grandi e ripieni di ricotta. C’è poi la pasta lunga, dove le tagliatelle fanno da battistrada. A Modena la sfoglia è uguale a quella di Bologna, ma il ragù è diverso: viene infatti preparato con funghi e sugo di cinghiale o lepre. Dalle sfoglie di tagliatella i modenesi hanno poi ricavato le rosette, delle mini sfoglie farcite con prosciutto cotto e formaggio, quindi arrotolate a formare dei nidi.

Arrotolati sono anche i due maccheroni tipici della città emiliana: quelli al pettineal torchio. I primi vengono preparati arrotolando diagonalmente un piccolo quadrato di pasta sfoglia, della dimensione uguale a quella usata per fare i tortellini, su un bastoncino del diametro di una matita, poi fatto passare su un pettine da tessitura.

La tradizione ci regala la data precisa della nascita di questi maccheroni: il 27 luglio 1742, il giorno in cui la fortezza di Mirandola fu assediata dai Savoia. La storia narra che il re entrò vincitore nella fortezza e, con il suo alleato austriaco Otto Ferdinand von Traun, andò a mangiare in osteria. Le scorte di cibo erano praticamente esauste a causa dell’assedio e quindi l’oste preparò qualcosa con ciò che restava: una pasta sfoglia fatta con farina e uova, condita con carne di galletto; per presentare al meglio la scarsa pietanza, pensò di arrotolare i quadretti di pasta su un bastoncino, passandolo poi su un telaio per ottenere la rigatura.

I maccheroni al torchio sono invece rigati da un attrezzo, simile a un torchio appunto, e serviti con il ragù usato per le tagliatelle.

A Reggio Emilia col Parmigiano

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Ci spostiamo sempre più verso nord, arrivando nella provincia del Parmigiano Reggiano. Pochi prodotti al mondo portano con sé i profumi, i sapori e la storia della propria terra come il Parmigiano. La tradizione delle sfogline a Reggio Emilia è molto simile a quella di Modena. I formati di pasta sono quasi tutti in comune: le tagliatelle, qui condite con un ragù ai funghi; i cappelletti, tradizionalmente consumati due volte di seguito, la prima volta in una scodella con l'aggiunta di un goccio di vino nel brodo, la seconda nella fondina con il brodo di cottura; le classiche lasagne.

Un formato di pasta totalmente diverso è invece quello del quadrettino: si tratta di un quadretto di pasta all'uovo cotto nel brodo di carne e arricchito da un piccolo intingolo, preparato a parte, di interiora di pollame.

Tra tortel dols e anolini in quel di Parma

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I 38 chilometri che separano Reggio Emilia e Parma ci bastano per sostituire la playlist: da Lucio Dalla a Giuseppe Verdi. Sulle note dell’Aida ci avviciniamo al Battistero, sulle strade che prima di noi sono state percorse da Bernardo Bertolucci e che lo hanno ispirato. Il regista due volte Premio Oscar è una buona forchetta: il cibo nei suoi film è una presenza sensuale, simbolica, persino politica. La passione più incontenibile è per i salumi, che sono onnipresenti nelle sue opere: Pippo Campanini e Matthew Barry ne La Luna hanno sul tavolo un magnifico culatello; l’attore newyorkese mangia però un piatto di anolini.

Questa pasta è fatta con un ripieno racchiuso tra due sfoglie. Si tratta di un formato antichissimo, menzionato già nel 1284 e riproposto ai papi e ai nobili del Granducato da Bartolomeo Scappi nel 1500. La prima ricetta “moderna” è del 1659, scritta da Ranuccio il Farnese, duca di Parma, con parmigiano e cappone. Nel secolo successivo gli anolini conquistano tutta Italia, tant’è che diventano uno dei piatti preferiti di Ferdinando di Borbone, un re che ha fatto della gastronomia un’arma di propaganda, anche se, pare, continuasse a chiamarli “raviuoli”, come quelli prodotti a Napoli.

Il rapporto tra il Granducato e la capitale del Regno delle Due Sicilie non era di amicizia, ma di parentela: Maria Luisa d’Asburgo, duchessa di Parma, era la nipote di Maria Carolina, regina di Napoli. Proprio alla duchessa dobbiamo un altro piatto tipico parmigiano, i tortel dols. Pare infatti che Maria Luisa offrisse ai barcaioli di Sacca di Colorno questo piatto dal ripieno agrodolce in segno di ringraziamento. Il ripieno è formato da pangrattato, vino cotto (ricavato facendo bollire lentamente per 24 ore il mosto d'uva) e mostarda rigorosamente fatta in casa.

Prima di lasciare Parma e dirigerci verso la fine del nostro viaggio, non può mancare un tuffo nel mondo dei tortelli, che qui sono verdi. I famosi tortelli all’erbetta hanno un impasto composto da spinaci o bietole verdi anche in abbinamento con aromi, condimento, formaggio e ricotta. Si mangiano il 23 giugno in onore di San Giovanni Battista e la tradizione impone che i tortelli siano riempiti con un impasto in cui prevale la ricotta, mentre la quantità delle erbette deve essere molto ridotta per non passare per “conigli”.

Infine Piacenza, la città degli anolini

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Sì, gli anolini li abbiamo incontrati a Parma perché sono prerogativa del Granducato, ma a Piacenza ci sono diverse varianti, non si possono sottovalutare. Oltre alla ricetta tradizionale in comune a Parma, troviamo altre due versioni succulente: gli anolini anven e gli anolini alla bobbese. I primi sono una variante della ricetta precedente, il cui ripieno è costituito da grana, pangrattato e noce moscata; i secondi derivano dagli agnolotti pavesi, sono più grossi e a forma di cappelletto. Tradizionalmente si servono asciutti e conditi con il sugo dello stracotto.

“Alla bobbiese” troviamo altri due formati ideati dalle sfogline: le lasagne e i maccheroni. Le prime si preparano tradizionalmente la sera della vigilia di Natale, ma la ricetta è molto diversa dalla versione bolognese o napoletana. Questo è un piatto magro, condito solo con besciamella e composto da lasagnette irregolari, triangolari o a rombi, usati come ritagli di pasta avanzata dalla sfoglia degli anolini che si mangiano a Natale.

I maccheroni sono invece forati con un ferro da calza e hanno origini medievali. Questo formato è stato infatti descritto per la prima volta nel "Liber de Arte Coquinaria" dal maestro Martino da Como, cuoco del Patriarca di Aquileia nel XV secolo. Sono conditi con sugo di stracotto di manzo tagliato e sfilacciato al coltello.

Terminiamo anche qui il viaggio nel mondo dei tortelli partendo da quelli alla Piacentina: hanno la forma di una caramella, con due code laterali e un ripieno con ricotta, spinaci, Grana Padano, noce moscata, uova e sale. Sono tradizionalmente serviti col burro fuso, salvia, Grana Padano grattugiato e un intingolo a base di funghi porcini. Ci sono poi i tortelli alle ortiche con ripieno di magro composto da ricotta, ortiche, noce moscata e Grana. Infine i tortelli di farina di castagne, la versione povera dei tortelli alla Piacentina.

La fine del viaggio

Termina con un piatto povero come il tortello di castagne questo viaggio che ci ha portati tra la storia dell’Italia con duchi, principi, registi, musicisti e artisti del calcio. Un mondo racchiuso in soli 165 chilometri, che racconta la ricchezza dell’Italia, le sue sfumature, la convivenza tra l’arte di arrangiarsi e le tavole opulente.

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A cura di
Leonardo Ciccarelli
Nato giornalista sportivo, diventato giornalista gastronomico. Mi occupo in particolare di pizza e cocktail. Il mio obiettivo è causare attacchi inconsulti di fame.
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