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26 Maggio 2022 11:00

Tutto sull’aperitivo: il rito collettivo che ha cambiato la vita degli italiani

Un rito collettivo nato nell'antica Roma e diventato celebre nel '700. L'aperitivo è una cerimonia tutta italiana che celebra la socialità e il buon vivere. Da Ippocrate a Carpano, Martini, Ramazzotti e Campari, vediamo la storia dell'aperitivo e cosa significa oggi per gli italiani.

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Tra i più apprezzati simboli gastronomici d'Italia c'è sicuramente lui, l'aperitivo, un momento della giornata in cui la convivialità la fa da padrone e tutti i pensieri sono scacciati via dalle bevande e dagli stuzzichini. Spesso ci riferiamo all'aperitivo come un concetto, un fatto astratto, ma in realtà non è proprio così anzi, questa è un'accezione abbastanza moderna. Un esempio? Spesso le persone anziane si riferiscono ai bitter frizzanti con il termine "aperitivo". Questo perché l'aperitivo è sì un momento della giornata ma al contempo è anche una semplice bevanda alcolica o analcolica che si beve prima dei pasti per stimolare l'appetito. Si tratta dunque di un prodotto generico, che può essere miscelato oppure no: in pratica, se vogliamo fare i secchioni, l'aperitivo altro non è che una bevanda assunta in un determinato contesto.

Sappiamo benissimo che c'è molto altro. Andiamo quindi alla scoperta di tutti i segreti di questo "contesto" nella giornata mondiale dedicata a uno dei più antichi e iconici rituali dell’italianità: oggi è il primo World Aperitivo Day. Salute a tutti!

La storia dell'aperitivo: da Ippocrate ai vini del Medioevo

Partiamo dal principio: il primo a ideare una bevanda assimilabile al nostro aperitivo è nientemeno Ippocrate, il più celebre medico della storia. Il greco, nel V secolo a.C. prescrive il vinum hippocraticum, un vino bianco e dolce con dittamo, assenzio, ruta per stimolare la digestione dei pazienti. Se invece vediamo l'aperitivo come "concetto" più che come prodotto, dobbiamo rifarci ai Romani: l'etimologia stessa della parola viene dal latino aperitivus (traducibile con "che apre"), si riferisce a una bevanda accompagnata da qualche stuzzichino che stimola ma non soddisfa l'appetito, qualcosa dunque "che apre" la sensazione della fame. A Roma non si beve vino bianco dolce ma qualcosa di simile, il mulsum, un drink a base di vino e miele. L'usanza è molto amata dai cittadini tant'è che Roberto Bompiani, artista romano dell'Ottocento, rappresenta fedelmente l'aperitivo dell'antica Roma in un dipinto esposto al Getty Center di Los Angeles.

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Il dipinto di Bompiani: "Il Parassita" |
The original uploader was Twice25 at Italian Wikipedia., CC BY–SA 3.0 , via Wikimedia Commons

Con l'arrivo dei barbari scompaiono tutte le tradizioni pantagrueliche del periodo classico: per ritrovare un'usanza simile all'aperitivus dobbiamo fare un salto di ben 1000 anni e catapultarci nel Medioevo. Periodo di grandi scoperte gastronomiche ed enologiche, il Medioevo si segnala per la sua farmacologia erboristica, una scienza priva di fondamento applicata soprattutto nei conventi e nei monasteri. I monaci inventano intrugli per curare le persone da ogni male, cercano ossessivamente "l'elisir di lunga vita" e provano a trovare la connessione tra l'umano e il divino. Tutti tentativi rivelatisi un buco nell'acqua che però ci hanno consegnato una gamma di amari e liquori da far invidia a tutto il mondo e alcune scoperte molto interessanti.

Tra queste ce n'è una che ancora oggi è alla base della ristorazione: per stimolare il senso di fame è necessario bere sostanze amare. In pratica questa scoperta inverte il sapere in possesso dei medici fino a quel momento: per 1500 anni hanno provato a lavorare sullo stomaco per risolvere i problemi di inappetenza, i monaci capiscono che bisogna lavorare sulla mucosa orale. Gli amari puntano quindi alla secrezione salivare e agli enzimi in essa contenuti: a questa felice intuizione aggiungono nuove ricette grazie alle spezie arrivate dai mercati orientali creando i primi e primordiali "bitter" da aperitivo. Le scoperte geografiche spostano sempre più gli orizzonti del "mondo conosciuto" portando in Europa sapori incredibili: il "vinum" dell'Impero comincia ad essere aromatizzato con cannella, rabarbaro, china, chiodi di garofano, noce moscata, mirra. Ti suonano familiari? Sono gli ingredienti della maggior parte dei vermouth.

Arriviamo all'aperitivo moderno: la sfida tra Torino e Milano

Bisogna aspettare ancora qualche secolo per ritornare a vedere questo l'aperitivo come un momento sociale e non come una cura. C'è un anno ben preciso: nella piccola bottega di liquori di Antonio Benedetto Carpano, a Torino, nasce il vermouth, un vino aromatizzato alla china. La prima svolta del giovane cantiniere è sul marketing: non vende questo prodotto come un qualsiasi vino, lo vende in bottiglie molto eleganti e ricercate, da un litro e non da 0,75 ml, per dare un tono al vermouth; la seconda è basata proprio sul nome, perché "piemontesizza" è il termine tedesco dell'assenzio, ovvero "wermut", dando a questo liquore una connotazione esotica.

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In realtà l'esplosione del vermouth non è così immediata come si aspetta Carpano che, dal canto suo, vende molte bottiglie in enoteca ai clienti abituali ma non sfonda come vorrebbe. L'intuizione a livello commerciale c'è, manca però un "testimonial". Ci impiegherà quasi 20 anni a trovarlo ma, finalmente, lo troverà in un personaggio inaspettato: il re Vittorio Emanuele II riceve una cassetta di vermouth e se ne innamora. Il governatore apprezza tantissimo il prodotto e, secondo la leggenda, avrebbe coniato il termine "punt e mes" , indicando il "punto e mezzo" di amaro in più rispetto ai suoi simili. Il vermouth di Benedetto Carpano sarebbe stato ribattezzato proprio "punt e mes". Ormai il nome conta poco perché se il prodotto piace al re, il gioco è fatto e il successo è praticamente scontato. Arrivano tanti altri "influencer" celebri di questo vino aromatizzato come Verdi, Garibaldi, Cavour, Giacosa, Mazzini, Rossini: la riuscita dell'operazione è tale che, a metà Ottocento, per soddisfare la clientela pare che la famiglia Carpano abbia tenuto per decenni aperta la bottega 24 ore su 24.

Mentre i Carpano gozzovigliano con i Savoia entra in scena un farmacista bolognese trasferitosi a Milano che ha tutta l'intenzione di realizzare una bevanda simile e sbancare nella città meneghina in grande ascesa. Nel 1815 il signor Ausano Ramazzotti realizza il primo aperitivo a base non vinosa: il famosissimo amaro è ricavato infatti dalla macerazione e infusione nell’alcol di ben 33 fra erbe, spezie e radici, ma la ricetta ancor oggi è segreta.

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Il periodo è florido e sia Carpano sia Ramazzotti hanno molto successo, cosa che spinge altri imprenditori a tentare la via dell'aperitivo: da Milano torniamo a Torino dove nel 1851 Alessandro Martini acquista una distilleria e, insieme al liquorista Luigi Rossi, fonda uno dei marchi italiani più celebri del pianeta. Il vermouth Martini a base di moscato, melissa sandalo, cannella, artemisia, violette, china, cardo, rose e origano è chiamato Martini Bianco e spopola in tutta la pianura padana, in particolare tra il pubblico femminile che apprezza la dolcezza del prodotto in un periodo in cui l'alcol è quasi solo appannaggio degli uomini. Il duo di imprenditori avrebbe presto aggiunto un'altra gamma, sostituendo il moscato con vini più secchi andando a creare il Martini Dry, sinonimo di uno dei cocktail più famosi del globo.

La sfida tra Torino e Milano è un ping-pong meraviglioso e quindi torniamo nel capoluogo lombardo dove una caffetteria in Galleria lancia un nuovo aperitivo amaro: per distinguerlo dal vermouth torinese (ma non troppo) usa un altro nome di origine germanica, ovvero bitter. I milanesi impazziscono letteralmente per questo prodotto e lo ribattezzano dandogli il nome del suo ideatore: nasce così il Bitter Campari, ancora oggi il simbolo dell'aperitivo italiano per eccellenza.

Come hai visto non c'è influenza estera se non per i prodotti che hanno arricchito la nostra miscelazione: l'aperitivo è infatti un'usanza tutta italiana nata da una bevanda leggermente alcolica pensata proprio per stimolare l'appetito. Un soft drink da accompagnare con qualcosa di sfizioso, una scusa per trascorrere il tempo in compagnia. Nel corso del Novecento si è esteso un po' in tutto il Nord Italia, nel III Millennio ha conquistato lo Stivale e non solo: oggi l'aperitivo si fa in tutto il mondo, portando nei bar un nuovo modo di bere e stare in compagnia, molto lontano dalle classiche bevute anglosassoni.

Aperitivo o happy hour?

Nel 2000 c'è l'esplosione definitiva dell'aperitivo come momento sociale: un cammino cominciato con Ippocrate, un movimento lentissimo che goccia dopo goccia ha conquistato tutto il mondo. Nella Milano del nuovo millennio arriva la moda dell'happy hour che va a "sostituire" l'aperitivo classico. In realtà questa sovrapposizione è del tutto immotivata perché i due "riti" assolvono a funzioni diverse.

La mania "dell'ora felice" nasce, ancora una volta, tra Torino e Milano, grazie ad alcuni locali che offrono delle promozioni alle 18:00, alla fine della giornata lavorativa. Più o meno da quell'ora fino a cena è possibile ordinare un alcolico a tariffa fissa e abbuffarsi al buffet composto da innumerevoli portate. Già qui è chiara la distinzione: l'aperitivo prepara alla cena, l'happy hour la sostituisce. Fortunatamente l'usanza dell'happy hour è durata davvero poco e, probabilmente, la pandemia l'ha mandata in soffitta ad impolverarsi insieme alla tecktonik, a Netlog e ai jeans con le scritte sul sedere.

La funzione sociale dell'aperitivo

Nel giorno del World Aperitivo Day è stato presentato anche un manifesto con alcune regole ben precise per questo momento della giornata. Tra i punti focali c'è spesso una parola ricorrente: "Rituale". L'aperitivo è proprio questo: un concetto, un rito, un momento, non più solo una bevanda o un pasto. L'aperitivo è una pillola di quotidianità dal fortissimo valore sociale, un valore che gli abbiamo attribuito inconsapevolmente ma di cui c'è un gran bisogno.

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In una società basata sui consumi c'è grande attenzione nell'arricchimento, c'è ossessione per il lavoro, per la possessione, c'è una continua che ci consenta di migliorare le nostre condizioni di vita. Tutto questo porta a mettere l'individualità sopra ogni altra cosa, porta alla solitudine. Da adulti le occasioni che abbiamo per socializzare sono sempre meno, esclusi lavoro e studio. L'arma che abbiamo per incontrare le persone è proprio il cibo. Non parliamo solo di prodotti e alimentazione, parliamo proprio di un momento di socialità, di un nuovo modo di alimentarsi per controbilanciare l'individualismo del nostro tempo: il cibo è il pretesto per incontrarsi, per conoscere nuove persone, per unire la comunità.

Nei bar ci connettiamo alle persone che conosciamo e ne incontriamo di nuove: c'è scambio di idee, c'è discussione, c'è crescita personale e collettiva. Nei bar, attraverso l'aperitivo, si costruiscono i legami. Frequentare un posto comune crea una base di appartenenza, come un club in cui ci sono solo pochi ammessi, anche se quegli ammessi non sono così pochi. Maura Franchi, sociologa e docente dell'Università di Parma dice che nei bar "si produce una sorta di misteriosa alchimia della socialità e si consolida un qualche tipo di cemento culturale e spirituale, attraverso la condivisione delle emozioni". L'aperitivo non è dunque bere un drink e mangiare una pizzetta: è la coccola che ci ritagliamo all'interno di una vita solitaria. L'aperitivo è "stare insieme" perché sono proprio gli attimi di svago che ci permettono di andare avanti nelle monotone giornate di lavoro.

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A cura di
Leonardo Ciccarelli
Nato giornalista sportivo, diventato giornalista gastronomico. Mi occupo in particolare di pizza e cocktail. Il mio obiettivo è causare attacchi inconsulti di fame.
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