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22 Maggio 2020 13:00

Pistacchio di Bronte Dop: come riconoscere e utilizzare l’oro verde siciliano

Alle pendici dell'Etna, nella lussureggiante campagna intorno a Bronte, si coltiva ormai da tempo immemore uno dei prodotti simbolo del territorio: il pistacchio. Tutelato con il marchio Dop, questa eccellenza deve la sua unicità a una forma, un gusto e un colore assolutamente caratteristici, resi tali dalle particolari condizioni ambientali e climatiche dell'intera zona. Scopriamo come riconoscere e usare l'originale.

A cura di Emanuela Bianconi
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La peculiare sfumatura verde smeraldo – che gli è valsa l’appellativo di “oro verde” – la forma leggermente allungata e il sapore unico, resinoso e straordinariamente aromatico rendono il pistacchio di Bronte il prodotto simbolo del territorio siciliano e in particolare della città catanese alle pendici dell’Etna. Un’eccellenza che deve gran parte della sua unicità alle condizioni climatiche della zona – torride d’estate e fredde d’inverno, con una forte escursione termica – e al terreno lavico arido, accidentato e costantemente concimato e nutrito dalle ceneri vulcaniche.

Di piccole dimensioni e dai rami sottili, questo alberello è capace di crescere abbarbicato su terreni impervi e rocciosi, dimostrando – proprio come il popolo brontese, a cui assomiglia moltissimo – grande resistenza, caparbietà e resilienza.  Particolarmente longevo (può vivere fino a 200 anni), produce un frutto lungo pochi centimetri, botanicamente detto dupre, contenente al suo interno un seme verde, rivestito di una pellicina brunastra, dal caratteristico gusto aromatico e ricco di grassi.

Un frutto biblico

Originario del Medio Oriente, l’albero del pistacchio (frastucara in dialetto siciliano) è stato portato in Sicilia dagli Arabi che, sbarcati a Marsala nell’827, conquistarono il territorio strappandolo ai Bizantini. Qui, nella zona di Bronte, il pistacchio trova il suo habitat naturale e la sua terra d'elezione diventando negli anni il fulcro dell’economia dell’intera area.

Frutto antichissimo, sembra che venisse coltivato in Persia già in età preistorica e che Giacobbe – come riportato nell’Antico Testamento – lo diede in dono al faraone: “Prendete con voi dei migliori prodotti di questa terra (…) e portateli in regalo a quel signore: un po’ di resina, di miele, di storace, di mirra, di pistacchio e di mandorle".

E ancora: le leggende narrano che la regina di Saba ne fosse ghiotta e avesse una piantagione esclusivamente per sé e i suoi cortigiani, mentre Nabucodonosor II, re dei Caldei, lo fece coltivare nei giardini pensili di Babilonia per sua moglie Amytis. Nell’XI secolo il medico e filoso musulmano Avicenna – scoperte le sue favolose proprietà benefiche e anche afrodisiache –  sentenziò così nel Canone della medicina: “Usansi i pistacchi nei cibi e nelle bevande che si fanno per madonna Venere”. Da allora, assieme a mandorle e pinoli, divenne uno degli ingredienti principali di quei cibi utilizzati come ricostituenti, utili a contrastare il deperimento fisico e sessuale.

La raccolta

A cadenza biennale, la raccolta del pistacchio brontese viene effettuata negli anni dispari, tra la fine di agosto e gli inizi di settembre. Questo rito, antichissimo e suggestivo, è eseguito ancora manualmente da circa 10mila persone: il paese si svuota letteralmente e tutti, anziani, donne e bambini, si riuniscono nei lochi – nome locale delle pistacchiete –  e partecipano alla raccolta. Nessun mezzo meccanico può arrivare sulla sciara, la colata di lava vulcanica raffreddata, un terreno durissimo che solo le radici del pistacchio riescono a penetrare.

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Tutto avviene ancora come una volta: si scuotono delicatamente i rami degli alberi e si fanno cadere i frutti all’interno di contenitori portati a spalla o su teli stesi ai piedi delle piante. Una volta raccolti, questi vengono “sgrollati” – quindi separati dall’involucro coriaceo che li ricopre: il mallo – e fatti asciugare per tre o quattro giorni al sole. Trascorso questo tempo, le tignoselle, i pistacchi secchi non sgusciati – chiamati ‘a bab­ba­lucèlle, pic­cole lumache, dai brontesi – vengono conservate in ambienti bui e asciutti, pronte per essere vendute dai produttori.

Una volta sgusciati, i pistacchi svelano le tipiche screziature violacee della pellicola protettiva. Sottoposti al procedimento di pelatura – che avviene mediante una breve e delicata esposizione dei frutti al vapore acqueo ad alta pressione – rivelano invece il meraviglioso colore verde brillante mantenendo inalterate tutte le caratteristiche organolettiche. Questa è la forma principale con cui vengono commercializzati ed esportati.

Negli anni pari, quelli di non raccolta, si procede alla potatura verde (le gemme in fiore vengono tolte a mano): il riposo, infatti, secondo questa antica consuetudine contadina, retaggio della dominazione araba, consentirebbe alla pianta di assorbire dal terreno lavico tutte quelle sostanze nutritive necessarie a produrre un frutto dall’aroma e dal gusto straordinari.

La febbre dell’oro verde

La produzione contenuta e l’impiego di manodopera piuttosto costosa – soprattutto a causa del terreno impervio e scosceso e, di conseguenza, delle difficoltà nella raccolta – ne fanno un ingrediente d’alto pregio e dal grande valore economico. Per le famiglie brontesi la coltivazione del pistacchio è una fonte preziosa di reddito, talvolta l’unica (gli appezzamenti appartengono soprattutto a piccole e medie proprietà e su 700 famiglie residenti la metà si dedica a questa attività).

E proprio per questa ragione – per preservare i pregiati frutti dai golosi nipotini – leggenda vuole che un tempo le nonne brontesi lanciassero loro il monito: “La febbre ti viene, la febbre!”. Tutt’oggi il loro prezzo rimane comunque elevato: i pistacchi privati del mallo e sgusciati, si aggirano tra i 30 e i 50 euro al chilo.

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Ogni due anni, quelli dispari appunto, si raccolgono a Bronte oltre 30mila quintali di pistacchi, ovvero l’un per cento della produzione mondiale (i colossi sono Iran, California e Turchia). Costantemente minacciati da importazioni soprattutto estere di qualità decisamente inferiore – al fine di tutelare i produttori locali e i consumatori finali – i pistacchi verdi della cultivar “napoletana”, coltivati nei comuni catanesi di Bronte, Adrano e Biancavilla, hanno conquistato nel 2009 la Denominazione di origine protetta.

Come riconoscere il Bronte Dop?

Forma, leggermente allungata e quasi appuntita, colore, tendente al violaceo quello della pellicina esterna e verde vivido quello del frutto interno (per l'elevata concentrazione di clorofilla), e sapore, dolce e aromatico grazie al peculiare terreno vulcanico da cui assorbe le sostanze nutritive, sono le caratteristiche che rendono questo prodotto unico e inimitabile. Per essere certi di acquistare esclusivamente l’originale, e non un’imitazione, è fondamentale controllare l’etichetta e verificare che vi sia l’indicazione “Pistacchio di Bronte Dop”. Diffidate delle diciture generiche come "Pistacchio siciliano" o "Pistacchio di Bronte" perché nessuna di queste più darvi la garanzia della sua origine e qualità.

Il pistacchio in cucina

Pelato e al naturale, tostato e salato, ridotto in granella o in farina. O ancora raffinato e trasformato in crema, pâté o pesto. Il pistacchio, come lo metti lo metti, è sempre una scelta vincente. A patto che sia quello autentico, a marchio Dop, caratterizzato da un aroma intenso e da un gusto unico, dolce e resinoso. Dall'amato pesto alla brontese, perfetto con i primi piatti ma sfizioso da spalmare anche su crostini e bruschette, ai salumi e insaccati arricchiti negli impasti dalla sua granella croccante; fino ai numerosissimi dolci che lo vedono protagonista di una pasticceria di tradizione siciliana sontuosa e irresistibile. Impossibile non citare cannoli, gelati, granite, croccanti, torroni e cassate, quelle delizie che fanno bella mostra di sé, trionfanti, tra le vetrine e i banconi delle pasticcerie locali. Soprattutto negli ultimi decenni, da quando il pistacchio è riuscito a prendere il posto, in molte ricette regionali, della più diffusa mandorla. Non solo tradizione, però: il pistacchio trova largo impiego anche in preparazioni più creative ed esotiche, come cookies, torte e cheesecakes, e in ricette salate come il tonno in crosta.

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