video suggerito
video suggerito
27 Marzo 2023 12:28

Il Financial Times contro la cucina italiana con l’aiuto di un “esperto”: perché lo fanno?

Il quotidiano finanziario britannico attacca la tradizione gastronomica italiana grazie all'aiuto di un docente italiano famoso per posizioni "anti-scientifiche" sul tema della storia della cucina. A un anno di distanza dall'attacco alla pizza, oggi Alberto Grandi se la prende con tutti i capisaldi della nostra tradizione.

1658
Immagine

Sembra essere un attacco diretto alla cucina italiana quello messo su dal Financial Times: il quotidiano britannico mette in discussione tutti i capisaldi della tradizione del Bel Paese, a partire da pizza, parmigiano e panettone, grazie a un'intervista ad Alberto Grandi, docente di storia dell’alimentazione all’Università di Parma. Questo nome lo abbiamo già incontrato su Cookist: nel marzo 2022 fu intervistato dal Fatto Quotidiano e disse esattamente le stesse cose ripetute al Financial Times. Evidentemente, nonostante le smentite arrivate da ogni tipo di collega ricercatore, il professor Grandi ancora non si fa capace di vivere in un Paese dalla tradizione millenaria. Una tradizione che si è certamente evoluta nel tempo, che non deve fossilizzarci, che spesso (non sempre) è accompagnata dal marketing, ma pur sempre millenaria: esistono ricette italiane che sono molto più antiche dell'Italia stessa.

Le inesattezze di Grandi al Financial Times

Il titolo è tutto un programma: "Tutto quello che io, un italiano, pensavo di sapere sul cibo italiano è sbagliato. Dal panettone al tiramisù, molti ‘classici’ sono in realtà invenzioni recenti". L'articolo parte da un vecchio assioma di Grandi: se la prende col Parmigiano Reggiano dicendo che quello più corrispondente alla tradizione è il parmesan fatto in Wisconsin. In pratica il docente dice che la tradizione italiana non esiste, è tutta americana, ma al contempo ammette una preistoria del nostro formaggio più celebre e amato.

Immagine

Parla del panettone dicendo che prima del 1900 era solo una "focaccia sottile e dura farcita con una manciata di uvetta" e che solo l'industria ha scelto di collegarlo al Natale. Ammesso e non concesso che 100 anni di storia non facciano una tradizione, questa è comunque una grave inesattezza: la più antica attestazione ufficiale di "pani grossi" prodotti con burro, uvetta e spezie si trova in un registro delle spese del Collegio Borromeo di Pavia risalente al 1599. In uno dei registri della serie Trattamenti e Cibarie, in testa all’elenco di pietanze previste per il menu del 23 dicembre 1599 per 40 persone, compare un’annotazione interessante: "Butero lb 3, ughetta lb 2, specie oz  5 date al Prestinaro per far 13 pani grossi per dar alli scolari il giorno di Natale"; ovvero tre libre di burro, due di uvetta, cinque once di spezie da dividere in tredici "pani grossi" da dare agli scolari "per il giorno di Natale". L'esportazione del panettone arriva nel Novecento ma per una motivazione ben precisa: prima era tutto fatto a mano, poi nascono le prime impastatrici che aiutano fornai e pasticcieri nel duro lavoro, permettendo loro di produrre molti più lotti. Grandi dice anche che il panettone artigianale non esiste, che è un'invenzione moderna, altra inesattezza quindi.

Surreale è l'attestazione delle fonti portate da Grandi e dalla giornalista che lo intervista: chiamano Bernardino Morono, nonno 97enne di un amico romano del docente, che ammette di non aver mai mangiato carbonara prima della guerra ma solo "minestra, fagioli e verdure dell’orto di famiglia. Forse una volta all’anno mangiavamo l’amatriciana, quando potevamo permetterci di ammazzare un maiale". Che la carbonara sia un piatto americano inventato in Italia non c'è più dubbio alcuno, ci sono numerose prove a sostegno di questa tesi. È tra i piatti tradizionali più moderni che ci siano. È anche vero che la tradizione italiana contadina si basava quasi solo su verdure e legumi ma il Financial Time non tiene affatto conto della totalità del Paese.

Questo punto su Grandi è stato già discusso in passato: una malcelata "antimeridionalità" di cui è spesso accusato. Tra le più grandi castronerie dette dal docente c'è che le pizzerie siano americane e non italiane. A sostegno di questa ipotesi un'altra surreale opinione: la giornalista chiama sua nonna, viareggina, che conferma di aver visto le prime pizzerie solo da adulta e di non aver mai mangiato mozzarella di bufala prima della Seconda guerra mondiale. Grandi dice che la pizza "è nata a Napoli ma si trattava di una pizza bianca, senza pomodoro e mozzarella, ricca di aglio e olio, mangiata per strada. Una sorta di street food primordiale" e che "gli italiani imparano a fare la pizza con pomodoro e mozzarella negli Stati Uniti". Cominciamo col dire che la definizione di "street food primordiale" è priva di senso: nel Mezzogiorno il cibo da strada fa parte della tradizione gastronomica da tempo immemore. Negli scavi di Pompei sono stati ritrovati dei banchetti per lo street food, con tanto di ciotole e vasellame. Parlare di questa pizza bianca come "antesignana" di una "moda" è insensato e sbagliato, reperti alla mano.

La pietanza a cui fa riferimento Grandi esiste davvero ed è la prima pizza della storia: la mastunicola. Anche in questo caso le informazioni divulgate sono sbagliate: la mastunicola non ha "aglio e olio" ma strutto, formaggio di pecora, pepe e basilico. Proprio a quest'ultimo ingrediente si deve il nome della pizza: "vasinicola" in napoletano significa "basilico". Non esistono documenti che parlano di "pizza aglio e olio" ma saremmo felicissimi di leggere questa ricetta sconosciuta se il professore ne possiede un estratto. Perché non troviamo il pomodoro in questa mastunicola? Perché questa pizza è del Seicento: a quel tempo il pomodoro era usato solo come pianta da frutto ornamentale; molti pensavano fosse addirittura velenoso.

Perché allora il professore dice che la pizza rossa è nata in America? Grandi fa riferimento a delle lettere che i soldati americani mandavano a casa, lamentandosi dell'assenza delle pizzerie, un'attività invece fiorente a Little Italy. Ci sembra ovvio che gli americani a Torino, Milano, Bologna, non trovassero pizzerie. La pizza era sconosciuta fuori dalla Campania, dove le avrebbero dovute trovare le pizzerie sti poveri soldati?

Immagine
Una margherita con mozzarella di bufala di Lombardi

La questione è molto grave perché dubbi sulla paternità di Margherita e Marinara non ce ne sono. A partire dall'inizio dell'Ottocento queste due pizze sono state citate in canzoni, dipinti, documenti storici, opere letterarie e saggi storici. Addirittura in un libro del 1884 troviamo Matilde Serao che cita delle primordiali pizze a portafoglio. Le pizzerie citate dal docente, nate in America, sono Totonno's e Lombardi's: ebbene, quest'ultima è stata fondata da un cugino di una pizzeria tutt'ora esistente a Napoli, Lombardi per l'appunto, fondata nel 1892.

Non capiamo il reale interesse che Grandi ha nell'affermare certe cose. Insistere sapendo di essere in errore ci induce a pensare a male: speriamo solo che questo non avvenga sulle spalle dei lavoratori italiani. Come afferma Coldiretti, infatti, "l’articolo è ispirato da una vecchia pubblicazione di un autore italiano che potrebbe far sorridere, se non nascondesse preoccupanti risvolti di carattere economico e occupazionale. La mancanza di chiarezza sulle ricette Made in Italy offre infatti terreno fertile alla proliferazione di falsi prodotti alimentari italiani all’estero, dove le esportazioni potrebbero triplicare se venisse uno stop alla contraffazione alimentare internazionale che è causa di danni economici, ma anche di immagine".

Immagine
Quello che i piatti non dicono
Segui i canali social di Cookist
1658
api url views