
C’erano più di un milione di ulivi nella Striscia di Gaza: oggi ne restano meno di centomila, molti dei quali secchi, spezzati, o bruciati. L’olivicoltura, un tempo spina dorsale dell’economia rurale e simbolo identitario dei palestinesi, è diventata un ricordo.
Secondo un rapporto delle Nazioni Unite, il 98,5% dei terreni agricoli di Gaza è stato danneggiato o reso inaccessibile dalla guerra iniziata nell’ottobre 2023. Prima del conflitto, la Striscia produceva in media 4.000 tonnellate di olio d’oliva l’anno, con oltre 10.000 famiglie impegnate nella filiera. Oggi, non resta quasi nulla: né gli alberi, né i frantoi, né l’acqua per irrigare.
Quando anche l’acqua diventa un lusso
Nelle campagne a sud di Khan Younis, molti contadini hanno tagliato con le proprie mani i tronchi secchi dei loro olivi. “L’acqua è più preziosa dell’oro — ha raccontato un agricoltore locale a Drop News — come posso chiedere acqua per gli alberi quando la gente muore di sete?”. Le reti idriche ed elettriche sono distrutte; i pochi pozzi solari sopravvissuti funzionano a intermittenza. In un territorio di sabbia e sale, l’ulivo — pianta capace di resistere alla siccità — è stato sconfitto non dal clima, ma dalla guerra.
Secondo l’ONU, solo 232 ettari di terreno restano oggi coltivabili a Gaza: una cifra simbolica, su oltre due milioni di abitanti. Gli alberi non muoiono solo per mancanza d’acqua, ma anche per assenza di cura. Chi vive nei campi lo sa: l’ulivo ha bisogno di potatura, di aria, di luce, di presenza. L’abbandono è la sua morte lenta.

L’olio impossibile da fare
L’olivo non è solo un albero: è una filiera, un sapere, una cultura materiale che lega stagioni e comunità. Anche laddove qualche frantoio è ancora in piedi — appena 5 su 35, secondo il Consiglio palestinese dell’olivo — produrre olio è diventato proibitivo. Il carburante costa fino a 25 dollari al litro, contro i due di prima della guerra. Le olive, quando ci sono, non possono essere trasportate: mancano strade, mezzi, contenitori, elettricità. Così, un litro d’olio palestinese può arrivare a costare fino a 100 shekel (circa 30 euro), il doppio rispetto al 2023.
Ma il valore economico è secondario: il vero danno è la perdita di autonomia. In Palestina, l’olio non è un prodotto commerciale: è un alimento di base, una riserva di energia per l’inverno, un bene di scambio e un simbolo spirituale. Senza olio, non c’è pane. E senza pane, non c’è vita quotidiana.
Cisgiordania: l’assedio degli ulivi
Dall’altra parte del muro, in Cisgiordania, gli alberi non vengono bombardati ma tagliati, avvelenati o sradicati. Secondo un’inchiesta de La Stampa (Francesca Mannocchi, ottobre 2025), centinaia di raid di coloni israeliani hanno distrutto migliaia di ulivi: solo tra agosto e ottobre di quest’anno, oltre 3.000 piante secolari sono state rase al suolo nei villaggi di Al-Mughayyir e Deir Ammar. Le ruspe arrivano accompagnate dai soldati, spesso con la giustificazione della “sicurezza” o della “difesa dei confini”.
Ma il risultato è lo stesso: campi vuoti, agricoltori feriti, famiglie private del loro reddito. Il 45% dei terreni agricoli della Cisgiordania è coperto da olivi: circa 10 milioni di piante che producono ogni anno 35.000 tonnellate di olio. Colpire gli uliveti significa minare l’economia di base, ma anche infliggere una ferita morale alla popolazione che sopravvive grazie a un bene così prezioso.

Un’economia senza radici
La perdita dell’olio è più di una catastrofe agricola: è la dissoluzione di un sapere millenario. L’olivicoltura in Palestina risale all’Età del Rame, tra il 3400 e il 2200 a.C., una delle più antiche. Ogni autunno, la raccolta era una festa collettiva: si cantava, si pregava, si lavorava insieme. Oggi, nelle stesse campagne, il silenzio è assordante.
Senza raccolto, i frantoi chiudono, senza frantoi, la comunità si spegne e la terra si svuota. L’economia dell’olio, un tempo basata sulla cooperazione e sul mutuo aiuto, si trasforma in economia di sopravvivenza: chi può, vende, chi non può, emigra.

Tra le rovine, la speranza di ripiantare
La Tunisia ha promesso di inviare 180.000 giovani piante di olivo per la ricostruzione di Gaza: si tratta di un gesto simbolico, ma carico di speranza. Ci vorranno anni: l’olivo inizia a produrre dopo 4-5 anni e raggiunge la piena maturità solo dopo una decina. Ma gli agricoltori palestinesi sanno aspettare, hanno già visto i loro alberi bruciare, eppure tornano nei campi, tagliano i rami secchi, innaffiano ciò che resta.
L’olivo, più di ogni altra pianta, rappresenta la continuità tra tempo e terra: è l’unica coltura che sopravvive ai padroni, ai regimi, alle guerre. Per questo colpirlo è un gesto che va oltre la distruzione materiale: è un tentativo di cancellare un’identità, di rendere il territorio muto. Ma l’olivo ha una forza che la guerra non conosce, cioè quella della memoria: anche quando non produce, resiste, anche quando è secco, mantiene le radici vive.