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11 Luglio 2022 11:00

Acquisteresti una passata di pomodoro fatta sfruttando un migrante?

Cos'è il caporalato e perché è così difficile da estirpare? Una piaga sociale che ha radici profondissime in Italia. Oggi è totalmente in mano alla mafia che sfrutta persone che non hanno alternative a questa sofferenza.

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Foto di Aboubakar Soumahoro

Il caporalato è uno dei grandi mali del nostro tempo e coinvolge tutti noi: strettamente legato al mondo della gastronomia, il caporalato trova terreno fertile negli assolati campi del Sud ma ha coinvolto sempre anche i lavoratori del Nord. In Italia ci sono più di 400.000 vittime di questo fenomeno simile allo schiavismo, gran parte sono immigrati dall'Est Europa e dall'Africa ma cresce la quota di italiani sfruttati, soprattutto nel settentrione. Vediamo nel dettaglio cos'è il caporalato e come combatterlo nel nostro piccolo.

Cos'è il caporalato

Il caporalato è senza ombra di dubbio un fenomeno di matrice mafiosa: il suo nome viene dai "caporali", ovvero gli intermediari che trovano i braccianti agricoli alle aziende, gestendo illegalmente il loro rapporto di lavoro. Coinvolge soprattutto pomodori e salse di pomodoro, oltre ad altri prodotti ortofrutticoli come arance e mele, ed è strettamente legato al mondo della grande distribuzione: i grandi marchi acquistano dagli agricoltori in aste al ribasso. Se hai visto il film Gomorra te lo ricorderai sicuramente: una grande azienda della moda fa un'asta per la cucitura degli abiti e gli imprenditori offrono un prezzo sempre più basso per aggiudicarsi il lavoro. L'imprenditore che vince l'appalto nel film di Garrone è legato alla camorra ed è nel tessile ma vale lo stesso tipo di discorso, con le stesse modalità, per il settore agricolo. L'aggravante dell'agricoltura, in un contesto già così tremendo, è la condizione del lavoro: d'estate si muore sotto al sole, come succedeva nella Virginia dell'800 nei campi di cotone.

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Una volta ottenuto l'appalto, per massimizzare il proprio profitto, l'imprenditore cerca manodopera a basso costo per venire incontro alle richieste insostenibili della distribuzione. Trovano un intermediario, il caporale, che a sua volta trova braccianti disperati. Sono i caporali a decidere chi lavora e chi no, chi viene pagato e chi no, chi mangia e chi no. Non contenti di queste sevizie psicologiche c'è dell'altro: l'alloggio è a carico del lavoratore, e per "alloggio" intendiamo una brandina in una capanna di paglia e mattoni, ed è gentilmente messo a disposizione dal mafioso; se vuoi la carta igienica, la vende lui, se vuoi mangiare, lui vende il cibo, se vuoi altra acqua oltre la tua reazione, il gentiluomo potrà venderti la bottiglia d'acqua. Paga? Circa 2 euro all'ora, centesimo più, centesimo meno.

Pensa che questa pratica è stata dichiarata illegale solo nel 2016, ma il fenomeno non è calato per nulla perché le condizioni del libero mercato non sono cambiate: in Occidente dobbiamo avere tutto, subito e a basso prezzo. Così vince la mafia.

Il caporalato al Sud: una piaga moderna ma terribile

La regione sotto la lente d'ingrandimento di questo fenomeno è la Puglia che si segnala ogni anno per un numero assurdo di morti nei campi. Ragazzi in condizioni indigenti, quasi tutti immigrati, costretti ad accettare condizioni di lavoro indecorose per cercare di sopravvivere. Non è detto che ci riescano: con le temperature sopra i 40 °C ogni flessione per raccogliere un pomodoro potrebbe essere fatale.

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Il fenomeno è così consolidato che viene "cantato" da anni: "Vieni a ballare, compare, nei campi di pomodori dove la mafia schiavizza i lavoratori e se ti ribelli vai fuori. Rumeni ammassati nei bugigattoli come pelati in barattoli, costretti a subire i ricatti di uomini grandi ma come coriandoli"; è "Vieni a ballare in Puglia" di Caparezza, siamo nel 2008, per un fenomeno che ha radici molto profonde nella storia italiana.

Per ovviare a questo problema il Governatore Emiliano ha emanato un'ordinanza che vieta espressamente di lavorare nelle ore più calde, quelle in cui il sole picchia di più, quindi dalle 12:30 alle 16:00, tutti i giorni fino al 31 agosto in tutto il territorio regionale. Bella cosa ma in Italia già ci sarebbe una legge a tutela dei cittadini costretti a lavorare in queste situazioni. Uno strumento utile nelle mani dei magistrati che ha portato al doppio delle inchieste rispetto al quinquennio precedente ma che incide ancora troppo poco: oltre 2000 i morti nei campi negli ultimi anni.

Ma che sta facendo l'Italia in tal senso?

Dopo la legge del 2016 il primo passo è stato fatto nel 2019 con un piano triennale scaduto da poco, del tutto inconcludente. La seconda c'è stata nel 2020 con un'astrusa "liberalizzazione" dei contratti di lavoro: il "Decreto immigrati" entrato in vigore dopo il lockdown per far fronte allo spauracchio del collasso dell'agricoltura.

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Secondo le attese del Governo questo decreto avrebbe dovuto portare oltre 200.000 domande con un'immissione di oltre 100 milioni di euro in tasse nelle casse dello Stato. Come avevamo ampiamente previsto però tutto questo non è accaduto: sono solo 60.000 le domande arrivate, un numero maggiore rispetto agli anni precedenti certo, ma di questi 60 mila immigrati, solo 15 mila sono impiegati nell'agricoltura. Un fallimento su tutta la linea che ha salvato qualche imprenditore da prigione certa, lasciando isolati i lavoratori.

La terza mossa dell'Italia è arrivata quest'anno ed è in corso d'opera: il Pnrr ha stanziato 200 milioni di euro ai Comuni per il superamento degli insediamenti abusivi dei braccianti agricoli, per la realizzazione di soluzioni alloggiative dignitose destinate ai lavoratori del settore agricolo. Secondo il ministro del Lavoro, Andrea Orlando, questa degli alloggi è una priorità perché "lo sviluppo di insediamenti irregolari è terreno fertile per l'infiltrazione di gruppi criminali e rendere più precarie le condizioni di vita dei lavoratori". A cosa servono questi soldi? Ci sarà un forte incremento degli ispettori del lavoro innanzitutto, le altre procedure saranno decise con le amministrazioni locali. Sarà poi la Direzione generale dell'Immigrazione e delle politiche di integrazione, in coordinamento con l'Unità di missione Pnrr del ministero del Lavoro, a monitorare l'avanzamento degli interventi, "con la facoltà di rivedere il riparto delle risorse in caso di modifiche significative del contesto di riferimento o ritardi nell'attuazione degli interventi programmati". In questo caso non ci resta che sperare e andare avanti.

Brutto da ammettere ma è ancora troppo poco, come ci dice Yvan Sagnet, sindacalista da sempre presente sul tema e fondatore dell'associazione No Cap attiva nella lotta al caporalato, filiere etiche, emersione lavoro nero e grigio in agricoltura, contrasto alle forme di riduzione in schiavitù in agricoltura. Secondo Sagnet l'Italia non contrasta adeguatamente questa forma di schiavismo "a causa dell'incompetenza dei dirigenti e delle istituzioni che hanno in carico questi dossier: incompetenza, menefreghismo e poca sensibilità". Negli ultimi anni qualcosa è stato fatto ma "una legge non risolve tutto, è solo un passo avanti dal punto di vista repressivo ma bisogna lavorare sulla prevenzione. C'è una legge sul tema ma non è mai stata applicata". Ci illumina anche sui fondi che lo Stato ha stanziato negli ultimi anni per "l'accoglienza e il trasporto ma questi soldi non coprono tutti i lavoratori e, soprattutto, non è questa l'accoglienza che vogliamo. Gli alloggi messi a disposizione dai vari governi sono tende e container che hanno contribuito alla creazione di nuovi ghetti". Servono delle riforme, è chiaro, e No Cap ha delle idee in merito: "La prima cosa da riformare è quella dei centri per l'impiego. Il caporalato si è sostituito proprio a questa assenza: le aziende cercano i lavoratori, loro glieli trovano come se il caporale fosse un collocamento. Altro aspetto importante è quello dei controlli: non è possibile che un Paese come l'Italia abbia solo 5000 ispettori nel settore agricolo a fronte di milioni di persone". Senza controlli è più facile imbrogliare, è un terreno fertile per la malavita. Lo stesso Sagnet, quando era un bracciante, non ha mai visto un ispettore sul campo. L'idea di Sagnet è quella di colpire gli sfruttatori dove fa più male: nel portafoglio. "Il Governo deve fare pressione alle aziende minacciando i finanziamenti pubblici — e conclude — perché le aziende agricole assorbono circa il 40% degli aiuti dell'Unione Europea. Le aziende vivono di sussidi statali, è un'arma molto potente in mano allo Stato. Noi chiediamo di dare quei soldi solo alle aziende che rispettano i diritti dei lavoratori. Vincolare gli incentivi alla qualità dei diritti per avere un elemento di pressione importante".

Come contrastare il caporalato nel quotidiano

Nel piano triennale alla lotta al caporalato si parlava di prevenzione, vigilanza, contrasto, protezione, assistenza e attenzione al reinserimento sociale oltre che sul lavoro. Non è successo nulla di tutto ciò e sono stati bruciati gli 88 milioni di euro previsti dal piano. In teoria sono tutte buone idee, anche il decreto del 2020 su carta poteva essere utile, ma all'atto pratico non si è risolto nulla. Will Ita ha da poco fatto un documentario sul caporalato in cui chiede degli interventi sulle etichette: "Se sull'etichetta dei pomodori ci fosse scritto che è stato raccolto da un migrante, li compreresti?" e ancora "affidarsi esclusivamente a etichette più dettagliate e certificazioni volontarie non basterà per garantire che i produttori tutelino i diritti umani dei lavoratori di filiera. Ma le etichette etiche potrebbero funzionare come parte di un insieme di misure e strumenti istituzionali per una produzione alimentare più giusta". Sull'etichettatura batte il punto anche l'attivista Aboubakar Soumahoro che il 4 luglio ha provato a protestare a Montecitorio prima di essere cacciato dai vigili del fuoco. Soumahoro da tempo è impegnato in questa battaglia e, insieme ai suoi associati, alcune idee pratiche per contrastare il fenomeno le ha date:

  • Introdurre il salario minimo perché noi, lavoratrici e i lavoratori, non possiamo continuare a patire la fame pur lavorando;

  • varare un piano nazionale contro gli infortuni sul lavoro perché noi, lavoratrici e i lavoratori, non possiamo continuare a scendere a compromessi con le morti per povertà;

  • riformare la filiera agricola, con l’introduzione della Patente del Cibo, perché noi, braccianti e contadini, non possiamo continuare ad essere schiacciati sotto il rullo compressore della potente Grande Distribuzione Organizzata. Inoltre, occorre rilasciare un permesso di soggiorno per contrastare il Caporalato.

La "patente del cibo" è un'idea che il sindacalista porta avanti da anni e prevede che vengano esplicitate una serie di informazioni che dicano dove quel cibo è stato prodotto e che garantiscano che sia stato prodotto senza sfruttamento.

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Abbiamo chiesto a Yvan Sagnet degli esempi pratici per aiutare tutti i cittadini a scegliere meglio e, magari, a non finanziare inconsapevolmente gli sfruttatori. La prima cosa da fare è "prendere consapevolezza, come persone, che c'è un problema di sfruttamento nel mondo del cibo. Un prodotto di qualità contempla il gusto, le aziende che lavorano bene devono fare prodotti buon e rispettare al contempo i diritti umani". A sorpresa "difende" anche le aziende agricole perché "loro, come i braccianti, sono l'ultima maglia della catena, sono i due soggetti che maggiormente patiscono la crisi. Oggi il potere contrattuale delle aziende è pari a zero e questo non consente agli agricoltori di portare avanti il mestiere in maniera sostenibile. A loro volta scaricano tutto sull'anello ancor più debole, ovvero i braccianti".

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Stiamo parlando di uno sfruttamento a catena in cui "i consumatori possono fare una scelta consapevole. Noi abbiamo inventato il bollino no cap, questo è il modo più semplice per far vedere al consumatore che questo prodotto è stato lavorato senza caporali. Non è una questione di prezzo o formato, purtroppo ad oggi l'unica arma è questo bollino".

Anche un costo basso ha comunque una valenza. Basta fare due calcoli: una passata da 700 ml costa mediamente 1 euro.

  • il 45% è il margine della distribuzione;
  • il 20% i costi di produzione;
  • il 20% il costo della bottiglia;
  • il 5% i trasporti
  • e solo il 10% il valore riconosciuto al pomodoro.

La materia prima la paghiamo 10 centesimi per 700 ml, non ti sembra un po' troppo poco? Lo squilibrio tra la distribuzione e la produzione impone la necessità di cambiare questo sistema. La repressione della legge non basta, deve partire da noi: quando un prodotto costa troppo poco, non dobbiamo acquistarlo se non vogliamo dare soldi alla mafia. Questo vocabolo deve essere ben chiaro perché spesso il fenomeno viene trattato come un corpo estraneo ai processi economici, e quindi sembra quasi che l’esercito contro cui si minaccia guerra sia privo di ufficiali e sia composto esclusivamente da, appunto, caporali. Naturalmente la catena di comando esiste.

Il caporalato c'è solo al Sud? Assolutamente no

Ad aprile dal tribunale di Cuneo è arrivata la prima condanna per caporalato nel Nord-Ovest. Una sentenza storica che è solo la punta dell’iceberg di uno sfruttamento diffuso. Questa indagine è partita nel 2018 grazie a un bracciante coraggioso che ha portato le forze dell'ordine sul posto con intercettazioni e pedinamenti. Per anni il problema è stato relegato al Sud ma episodi del genere in Lombardia, Friuli Venezia-Giulia, Trentino e Piemonte sono centinaia. Secondo l'Osservatorio del sindacato Flai-Cgil il Settentrione è l'area italiana con più caporalato, con un aumento dei casi quotidiano. Nonostante il focus sia sempre sulla Puglia, il maggior numero di illeciti registrati per regione spetta alla Sicilia ma seguono Veneto, Lombardia e Piemonte dimostrando che il caporalato non conosce confini.

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Dobbiamo sempre tenere a mente che questa non è una questione Nord-Sud, è una questione di schiavitù. Il primo grosso caso lo abbiamo visto nel 2015 con un'inchiesta di Slow Food: "In Langa e nel Monferrato se non ci fossero i macedoni si fermerebbe tutto. Sarebbe peggio della grandine. Un’apocalisse. La loro presenza è massiccia sia tra i dipendenti fissi delle cantine sia tra i membri delle cooperative, che sopperiscono a gran parte del lavoro in vigna nel periodo caldo dell’anno". Stando all'inchiesta la paga sarebbe stata di 3 euro all'ora e le condizioni del tutto simili a quelle degli sfortunati colleghi al Sud.

Ci preme sottolineare che questo fenomeno è nato proprio nel Nord Italia: negli anni '50 i casi di caporalato colpivano gli immigrati del Mezzogiorno in cerca di fortuna al Nord. Da quando l'Italia si è trasformata in un Paese di approdo e non di partenza si è capovolta la situazione: cittadini italiani di ogni latitudine hanno cominciato a sfruttare i nuovi immigrati. Come diceva De Crescenzo "si è sempre i meridionali di qualcun altro".

Come abbiamo visto non è quindi un fenomeno moderno, anzi. A partire dal 1989 c'è stato un forte sentimento di rivalsa sul tema: nell'estate di quell'anno, a Villa Literno in provincia di Caserta, ci sono state le prime proteste dei migranti contro i caporali al fine di ottenere il sostegno del sindacato. La popolazione locale non l'ha presa bene e il 25 agosto, in circostanze sospette, è stato ucciso Jerry Masslo. L'omicidio ha avuto un effetto simbolico importante sia sui lavoratori sia sull'opinione pubblica favorendo la nascita di un primo vero movimento nazionale anti-razzista. Purtroppo però in oltre 30 anni le cose non sono affatto cambiate.

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