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20 Luglio 2023 13:00

Vogliamo solo prodotti italiani a tavola? Ecco perché è impossibile

Avere una tavola solo made in Italy è impossibile: mangiamo più di quanto produciamo. Questo vale anche per prodotti tipici, come i salumi. C'è poi il caso estremo del tonno a cui non dovremmo arrivare. Vediamo i prodotti più insospettabili che importiamo in grande quantità.

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Parliamo spesso del Made in Italy e di come i nostri prodotti siano i migliori al mondo, gli unici che dovremmo consumare. Purtroppo però questa è un'utopia: non perché i prodotti non siano di qualità ma perché non siamo autosufficienti. Quando parliamo di import-export dobbiamo fare i conti con i numeri: l'Italia ha un patrimonio unico sulla Terra ma, al contempo, è anche un Paese molto piccolo ed incredibilmente popolato. Non abbiamo spazio per dar da mangiare a tutti e infatti siamo strettamente legati all'importazione dei prodotti, molto più di quanto immaginiamo. Oltre al mero calcolo matematico che ci porta ad avere un fabbisogno enogastronomico più alto rispetto alla produzione, c'è un fattore molto più banale: l'Italia fa parte dell'Unione Europea e ha degli accordi con gli altri Stati per favorire il libero commercio tra le parti. Importare ed esportare prodotti favorisce l'economia di tutti anche se sembra controproducente.

Siamo autosufficienti solo per 3 prodotti che portiamo comunemente a tavola

Da quando si è insediato il Governo di Giorgia Meloni il ministero delle Politiche agricole è diventato ministero dell’Agricoltura e della Sovranità Alimentare e Forestale. Con il termine "sovranità alimentare" parliamo di un modello di gestione delle risorse che mette al centro le persone e non il capitalismo. Promuove una produzione sostenibile e rispettosa dei lavoratori, incoraggia le economie locali e punta al chilometro zero per ridurre lo spreco, l'inquinamento e lo sfruttamento del territorio. Il concetto ridà la "sovranità alimentare" in mano a chi queste risorse le produce e le consuma e non più alle grandi aziende, come oggi. Punta a valorizzare le tradizioni e promuove metodi e mezzi di gestione sostenibili dal punto di vista ambientale. Purtroppo in questi mesi abbiamo spesso frainteso il suo significato e giorno dopo giorno ci trinceriamo dietro un inutile nazionalismo che non ha mai avuto valore a tavola: basti pensare alla pizza margherita, un piatto di discendenza egizia, con il pomodoro latinoamericano, il basilico asiatico, la mozzarella italiana. Questo è solo un esempio ma nel concreto il nazionalismo a tavola, soprattutto in Italia, non ce lo possiamo permettere.

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Gran parte dei prodotti che consumiamo a tavola viene dall'estero. L'Italia è autosufficiente solo per pollo, riso e vino. Per tutto il resto siamo dipendenti dagli altri Paesi: importiamo il 40% del grano, il 45% della farina e addirittura il 60% dell'olio. Quest'ultimo dato sorprende perché abbiamo un'idea distorta dei nostri ulivi. Pensiamo che siano infiniti e invece importiamo tantissimo olio dalla Spagna che viene lavorato dai marchi italiani. In misura minore arrivano anche da Grecia, Turchia e Africa Mediterranea. I nostri contadini lavorano più sulla qualità che sulla quantità ma dobbiamo dire che l'epidemia di xylella che ha colpito le piante in Puglia ha ridotto in maniera molto forte la produzione di olio. Si parla di circa 22 milioni di ulivi morti, il 40% della produzione in meno.

Altro punto molto dibattuto è quello dei salumi: la maggior parte dei disciplinari obbliga le aziende a produrre solo con animali cresciuti in Italia ma ci serve necessariamente il 40% di carne importata per soddisfare il fabbisogno interno di salumi. Tragica, non possiamo dire altrimenti, è la questione delle conserve ittiche come lo sgombro e ancor più il tonno. La pubblicità ci ha fatto convincere che il "pinna gialla" sia il miglior tonno possibile, che questo pesce deve essere tenerissimo e deve tagliarsi senza apporre resistenza. Nulla di più sbagliato, il tonno deve essere tenace e le migliori qualità sono quelle di "tonno rosso". L'Italia è ricca di tonno rosso che però esporta in larga parte verso l'estero, sono pesci utilizzati in ristorazione. Il Giappone importa tanto tonno rosso da Sicilia e Campania. Al contempo il Sol Levante ci manda il pinne gialle perché lì non è molto apprezzato. Quindi sì, hai capito bene: compriamo un loro scarto e lo paghiamo anche molto. Secondo Federconsumatori arriviamo alla cifra abbagliante del 95% con la quota di importazioni per le conserve ittiche. Per il mondo dell'ortofrutta ci limitiamo al 16% di importazioni, in larga parte ci riforniamo di frutta già trasformata, sempre e solo per soddisfare il fabbisogno interno. Ovviamente importiamo completamente anche caffè e cacao, altri due capisaldi della nostra cucina, ma in questo non possiamo farci nulla: non crescono in Italia.

Ci difendiamo invece su riso, latte, formaggio, acqua e vino: le quote di importazione si aggirano attorno al 5% circa e sono quote normali, date dal mercato. Importiamo prodotti di qualità, come Champagne o formaggi francesi per citare i due esempi più noti, perché siamo dei buongustai. Questo però ci deve far capire che parlare di "cucina italiana" comporta necessariamente una trattativa con la nostra coscienza e con la nostra storia: per i prodotti simbolo dell'Italia, per i piatti più noti della nostra cucina, non siamo certo autonomi.

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Quello che i piatti non dicono
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