
Tra le luci fredde dei banchi frigo, i petti di pollo confezionati sembrano il prodotto perfetto di un sistema efficiente. Eppure dietro quella superficie ordinata si nasconde una storia di sofferenza: animali costretti a crescere troppo in fretta, incapaci di muoversi senza dolore. Per le norme sanitarie restano “sani”, ma le loro condizioni raccontano tutt’altro. Lo rivela un’inchiesta di Essere Animali, ripresa da Il Fatto Alimentare, che ha messo in luce un sistema produttivo spietato, dove gli animali vengono spinti al limite biologico per garantire una crescita rapidissima e una carne economica. Le grandi aziende del settore — Aia, Amadori e Fileni — insieme alle principali catene di distribuzione (Coop, Conad, Esselunga, Lidl, Unes, Iper) alimentano un mercato che privilegia la quantità alla qualità e al benessere animale.
Le “strisce bianche”: il sintomo di una sofferenza invisibile
Secondo l’inchiesta di Essere Animali, oltre il 90% dei petti di pollo venduti con i marchi Conad, Coop ed Esselunga presenta white striping, ovvero strisce bianche visibili a occhio nudo. Questo fenomeno non è un difetto estetico, ma il segno di una miopatia muscolare degenerativa: le fibre muscolari, incapaci di reggere la crescita forzata dell’animale, degenerano e vengono sostituite da tessuto fibroso e grasso. Le razze utilizzate — come Ross 308 e Cobb 500 — sono selezionate per crescere fino a 60 grammi al giorno, raggiungendo il peso di macellazione in soli 35-40 giorni.
Il risultato? Animali che non riescono a reggersi sulle zampe, muscoli troppo grandi per essere irrorati correttamente e una carne meno nutriente: più grassa, con meno proteine e più collagene.
Ustioni alle zampe: la sofferenza nascosta che finisce all’estero
Il white striping è solo la parte visibile del problema: unaltro elemento molto preoccupante, infatti, sono le ustioni da contatto alle zampe, causate da lettiere sporche, umide e impregnate di deiezioni. Un’indagine condotta su 185.000 polli macellati in Lombardia, provenienti da 40 allevamenti, ha mostrato che tutti gli animali presentavano lesioni, in molti casi gravi. Queste zampe ustionate non finiscono nei banchi dei supermercati italiani: vengono esportate all'estero, dove il mercato le assorbe come sottoprodotto. Ma la loro esistenza racconta una verità scomoda — quella di animali allevati in condizioni di degrado sistemico, invisibile ai consumatori. ù

Polli tutti uguali: il mito del marchio e la realtà industriale
L’inchiesta di Essere Animali ha anche svelato un altro aspetto inquietante: i polli venduti con marchi diversi sono in realtà quasi identici. Il 92% dei petti a marchio Conad, il 90,6% Coop e il 96,4% Esselunga mostra la stessa forma di miopatia, con livelli gravi in oltre la metà dei campioni. Questa omologazione è dovuta al fatto che tutti gli allevamenti utilizzano le stesse razze, gli stessi mangimi e gli stessi protocolli di crescita. Dietro loghi e confezioni differenti si nasconde quindi un’unica filiera industriale, dominata da pochi grandi player e basata su criteri puramente economici.
Secondo alcuni studi, soltanto una piccola frazione (singoli casi aziendali indicano circa il 10%) del totale della produzione avicola italiana è costituita da polli a lento accrescimento o biologici. Dato in parte stimato da fonti settoriali, perché non esiste al momento pubblicamente un rapporto nazionale ufficiale aggiornato che fissi la quota di mercato precisa dei polli a crescita lenta o biologici.
“Carni sicure”, ma a quale prezzo?
Le autorità veterinarie certificano che la carne resta “sicura” dal punto di vista sanitario, poiché le patologie riscontrate non sono infettive.
Ma la sicurezza alimentare non coincide con la salute degli animali. Le strisce bianche e le ustioni alle zampe raccontano di creature trattate come “macchine da carne”, cresciute fino al limite fisiologico in un sistema che le considera materia prima più che esseri senzienti.
Le stesse catene che dichiarano di tutelare il benessere animale nei propri codici etici non aderiscono allo European Chicken Commitment (ECC), l’unico standard europeo che impone razze a crescita lenta, spazio vitale maggiore e luce naturale nei capannoni.

L’alternativa possibile: polli a crescita lenta
Nonostante il quadro sconfortante, esiste un modello alternativo. L’European Chicken Commitment è stato sottoscritto da oltre 300 aziende europee, tra cui i colossi francesi Gruppo LDC e Terrena. In Italia alcune aziende del settore hanno preso impegni formali verso l’ECC: Eataly ha sottoscritto l’accordo a febbraio 2022 per tutta la propria offerta di pollo, Fileni ha dichiarato di applicare i criteri ECC alla propria produzione a marchio. Il report “ChickenTrack 2024” di Compassion in World Farming segnala anche Carrefour Italia e Cortilia tra le imprese italiane che “hanno preso impegni”
Nel caso di molte aziende però, l’impegno riguarda solo i polli biologici, che rappresentano appena una piccola parte della produzione: il resto continua a essere destinato alle catene della grande distribuzione.
Uno studio statunitense ha stimato che il passaggio a razze a crescita lenta potrebbe richiedere un aumento di costi pari a circa 0,60 – 0,75 euro al kg (all’epoca circa 0.29 $/lb) per uguagliare i rendimenti. Nel contesto europeo un report ADAS (2024) per l’European Chicken Commitment calcola un aumento di costi di circa il 17% per kg di peso vivo nei Paesi Bassi.
La storia raccontata da Essere Animali e Il Fatto Alimentare mostra con chiarezza che il benessere animale e la trasparenza della filiera sono ancora lontani dagli scaffali dei supermercati italiani. I polli che arrivano nelle nostre cucine sono il risultato di un sistema che privilegia la produttività alla vita. Eppure, cambiare è possibile: scegliere prodotti biologici, allevati a lenta crescita o provenienti da aziende aderenti all’ECC è un atto di responsabilità che parte dal carrello e si estende a tutta la filiera.