
Negli ultimi decenni gli oceani stanno mostrando con sempre maggiore evidenza i segni della pressione esercitata dalle attività umane. L’inquinamento da plastica, l’acidificazione delle acque e il costante aumento delle temperature sono oggi ben documentati, ma c’è un altro fattore altrettanto determinante, spesso meno percepito dall’opinione pubblica: la pesca industriale.
Non è tanto l’atto del pescare in sé a rappresentare una minaccia, quanto il modo in cui si pesca, la scala delle operazioni e l’impatto che queste hanno sugli habitat marini. La FAO, nel suo Codice di condotta per la pesca responsabile, ha chiarito come sostenibilità significhi non solo evitare il sovrasfruttamento degli stock, ma garantire che la pesca possa convivere con la conservazione degli ecosistemi, proteggendo fondali, vegetazione e biodiversità marina.
Nonostante gli sforzi per regolamentare il settore, molti mari continuano a soffrire per pratiche poco selettive. Le regioni del Mediterraneo e del Mar Nero, per esempio, pur mostrando un leggero miglioramento negli ultimi anni, presentano ancora una quota significativa di stock sovrasfruttati, come riportato nell’ultimo rapporto SOMFI 2023. È in questo contesto che diventa essenziale capire le differenze tra un metodo di pesca e l’altro, perché non tutte le tecniche hanno lo stesso impatto: alcune sono altamente selettive e compatibili con l’equilibrio degli ecosistemi, mentre altre, pur garantendo grandi volumi di pescato, causano danni profondi e duraturi.
Pesca a canna, la più sostenibile

La pesca a canna rappresenta la forma più selettiva e sostenibile di cattura a livello professionale. La sua caratteristica principale è il controllo: chi pesca sceglie cosa tirare a bordo e cosa rilasciare immediatamente, evitando così il problema dei rigetti, uno dei maggiori sprechi della pesca industriale. Il pesce non conforme — per specie, dimensioni o maturità — torna in acqua subito e con pochi danni. Questa tecnica permette quindi di ridurre al minimo la mortalità accidentale e di non alterare l’equilibrio delle popolazioni ittiche.
Nonostante ciò, la pesca a canna è ancora poco diffusa nell’industria ittica. I motivi sono essenzialmente economici: richiede più tempo, più manodopera e offre rese inferiori rispetto ai metodi che catturano grandi quantità di pesce in un’unica operazione. È sostenibile, ma non immediatamente redditizia su larga scala.
Reti a circuizione, più diffuse ma meno selettive

Le reti a circuizione sono uno dei metodi più usati dalla pesca industriale moderna. Funzionano circondando interi banchi di pesci, oggi individuati con il supporto di strumenti satellitari e sonar. L’efficacia è altissima, ma la selettività può variare in modo significativo. In condizioni ideali — cioè senza strumenti che attirino artificialmente i pesci — la percentuale di rigetti può essere contenuta e il metodo risulta relativamente accettabile.
La criticità nasce quando le reti vengono utilizzate insieme a dispositivi di aggregazione o in zone dove i banchi sono molto eterogenei per specie e dimensioni. In questi casi la selettività crolla e il pescato indiscriminato diventa un problema rilevante, soprattutto per le specie in declino o con cicli riproduttivi lenti.
Gli strumenti che attirano: cosa sono i FAD

Ed eccoci ai metodi che attirano artificialmente i pesci in un punto specifico, per garantire volumi di pesce elevati. I FAD (Fish Aggregating Devices) sono strutture — spesso boe ancorate con pesi di cemento e dotate di materiali galleggianti e ombreggianti — progettate per attirare in modo artificiale grandi quantità di pesci. Il risultato è un’aggregazione innaturale di centinaia di specie diverse sotto lo stesso punto. Quando il peschereccio arriva, cattura tutto ciò che il dispositivo ha raccolto, ma solo una minima parte del pescato è utile dal punto di vista commerciale.
La conseguenza è un impatto estremamente negativo sulla biodiversità. La gran parte delle specie catturate accidentalmente finisce rigettata in mare, ma spesso senza possibilità di sopravvivenza. Studi e osservazioni internazionali riportano che un singolo FAD può attirare più di trecento specie, molte delle quali non hanno alcun interesse economico ma rappresentano tasselli fondamentali dell’ecosistema. Si tratta, a tutti gli effetti, di uno dei metodi più problematici della pesca moderna.
Reti da traino e pesca a strascico, i metodi più impattanti

Tra tutte le tecniche di pesca industriale, la pesca a strascico è considerata la più devastante per gli habitat marini. Le reti da traino, a forma di grande cono, vengono trascinate dal peschereccio durante la navigazione. Quando questo avviene in acque libere l’impatto è già elevato perché la selettività è molto bassa e la quantità di rigetti è significativa. Ma quando la rete viene trascinata sul fondale — la pratica nota come pesca a strascico appunto — il danno si estende all’intero ecosistema bentonico.
I fondali vengono letteralmente raschiati: coralli, praterie di fanerogame, specie filtratrici e habitat vulnerabili vengono spazzati via dalle reti appesantite. È un impatto che non si limita alla fauna, ma altera la struttura del fondale per anni o decenni. Nonostante ciò, questa tecnica continua a essere ampiamente utilizzata in molte aree, compreso il Mediterraneo, anche per specie ad alta domanda commerciale come i gamberi.
Cosa può fare il consumatore per ridurre l’impatto della pesca
Anche se la sostenibilità dipende in gran parte da come l’industria opera in mare, il consumatore ha comunque un ruolo: le nostre scelte orientano il mercato e possono premiare le pratiche meno impattanti. Basta un po’ di attenzione al momento dell’acquisto per trasformare un gesto quotidiano in un contributo reale alla tutela degli ecosistemi marini.
- Controllare l’etichetta: verificare zona FAO di cattura, specie esatta e tecnica utilizzata. Più informazioni ci sono, più è probabile che la filiera sia trasparente.
- Preferire tecniche a basso impatto, come la pesca a canna, i palamiti selettivi – lunghe lenze con ami distanziati usate per catturare singoli pesci in modo mirato – o la piccola pesca artigianale.
- Scegliere pesce locale e stagionale, che richiede meno trasporto, sostiene le marinerie costiere e riduce la pressione su poche specie che però sono molto richieste.
- Variare le specie consumate, evitando di concentrare la domanda sempre sugli stessi pesci (come ad esempio tonno, salmone, pesce spada).
- Evitare prodotti da metodi ad alta mortalità accidentale, come reti a strascico e FAD, soprattutto quando non specificato o mascherato con etichette generiche.
- Informarsi attraverso certificazioni serie, privilegiando quelle che valutano sia lo stato degli stock sia l’impatto sugli habitat, e non solo la quantità di pesce catturata.