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Da qualche anno, a settembre, Genova si sveglia con un curioso cambio d’identità: Piazza della Vittoria smette di essere una piazza e diventa un tendone bavarese a cielo aperto. Tra i leoni di marmo e i portici, spuntano boccali da un litro, würst fumanti, fisarmoniche e cori “Prost!” che echeggiano fino a tarda sera. Non è un errore del navigatore: è l’Oktoberfest genovese, la versione ligure della festa della birra più famosa del mondo. Ma come siamo arrivati a celebrare l'Oktoberfest a Genova?
Dal pesto ai crauti: il paradosso genovese
A prima vista, il contrasto fa sorridere. La città che difende il pesto come se fosse un brevetto internazionale, che discute animatamente sulla differenza tra focaccia normale e “col formaggio”, che si vanta della sua farinata millenaria… improvvisamente mette da parte tutto per inneggiare allo stinco di maiale. È il paradosso culturale per eccellenza: Genova che, per ben due settimane, rinuncia a essere Genova per travestirsi da Monaco.
Ma perché si fa? La risposta è meno assurda di quanto sembri. L’Oktoberfest genovese nasce nel 2009, ed è stata la prima edizione ufficiale in Italia autorizzata dalla birreria Hofbräuhaus di Monaco. L’idea? Portare in Liguria un pezzo di Baviera, sfruttando l’appeal internazionale della festa e trasformandola in un evento di richiamo turistico e commerciale.
Il successo è stato immediato: ogni anno migliaia di persone affollano Piazza della Vittoria, attratti non solo dalla birra e dal cibo tedesco, ma dall’atmosfera collettiva e un po’ carnevalesca che raramente Genova riesce a concedersi. Così la tradizione importata è diventata, di fatto, anche una "tradizione locale".
La sociologia del boccale
Da un punto di vista sociale, la festa funziona benissimo: seduti ai lunghi tavoloni, si beve fianco a fianco senza chiedersi chi sia il vicino. È un gigantesco livellatore: lo studente brinda con il pensionato, il manager con il turista, e per qualche ora tutti parlano la lingua universale della birra. Eppure, sotto la superficie gioiosa, resta la sensazione di un rito un po’ posticcio: ci comportiamo come se fosse parte del nostro Dna culturale, quando in realtà è un’adozione recente e, diciamolo, motivata più dall’economia che dalla storia.

Economia, spettacolo e globalizzazione
Il motivo vero è semplice: funziona. Porta turismo, riempie le casse dei ristoratori, dà visibilità alla città. È un evento commerciale che ha trovato il modo di presentarsi come tradizione popolare. Nulla a che vedere, insomma, con eventi come il Cous Cous Fest di San Vito Lo Capo o Girotonno a Carloforte che, per quanto possano essere criticati, restano comunque legati a tradizioni nate sul territorio per necessità, con una storia solida alle spalle.
Niente di scandaloso: succede in tante città del mondo. Ma il rischio è sempre lo stesso: nel moltiplicare le copie, si perde l’originalità. Si crea un’illusione di appartenenza che, per quanto divertente, resta un travestimento.
Un brindisi sospeso
L’Oktoberfest genovese, insomma, è una festa allegra, partecipata e perfettamente riuscita. Ma resta il dubbio: davvero Genova, con la sua storia, il suo mare e la sua cucina, ha bisogno di travestirsi da Baviera per sentirsi viva? Forse il vero coraggio sarebbe inventare una festa che parli di noi, non di qualcun altro.
Fino ad allora, continueremo a brindare con boccali da un litro sotto i portici, tra crauti e cori in tedesco, salvo poi tornare la mattina a fare la fila dal fornaio per la focaccia calda. E forse è proprio lì, tra l’odore del basilico e della farinata, che si trova la vera Oktoberfest genovese.