8 Aprile 2020 13:00

La storia della minestra maritata: la zuppa di Pasqua inventata dagli antichi Romani

La storia della minestra maritata comincia nel I secolo e ne parla Apicio, il più importante gastronomo dell'antichità. A Napoli arriva 1300 anni dopo con la dominazione degli Aragonesi e la loro Olla Potrida. La minestra "è sposata" dal connubio perfetto tra i vari ingredienti che la compongono e che risultano, per l'appunto, perfettamente in sintonia.

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La minestra maritata fa parte della storia gastronomica campana: è la regina delle minestre in una regione in cui la zuppa, come piatto, non è proprio ben vista. Durante l’anno mangiare una minestra è quasi sinonimo di malanno, a Natale e Pasqua mangiare la minestra è invece un dovere imposto dalla storia. Il nome tanto riconoscibile deriva dal “matrimonio” che fanno le verdure e la carne, un'unione celebrata fin dai tempi degli antichi Romani.

La storia della minestra maritata, da Apicio agli Aragonesi

La minestra maritata vanta una storia antichissima: nel “De Re Conquinaria” scritto da Marco Gavio Apicio, l’opera composta di dieci libri che ha permesso agli studiosi di risalire alle abitudini culinarie del I secolo, compare una minestra con verdure e maiale.

L’opera è divisa in volumi, ogni volume è dedicato a una materia prima e Sally Grainger, docente di storia all’Università di Reading, nel suo "The Myth of Apicius", scrive addirittura del dubbio che ha attanagliato Apicio nel collocare la zuppa: “Carne o verdure?”, alla fine la scelta è caduta sul terzo volume, quello sulle verdure.

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Escluso Apicio, non esistono tracce della ricetta della minestra maritata, che a Napoli è stata portata sicuramente dagli Aragonesi nel XIV secolo: l’Olla Podrida, una zuppa spagnola che si presenta come un minestrone molto sostanzioso e ricco, con diversi tipi di carne e spezie.

Il nome di questa zuppa significa letteralmente “pentola marcia” ma deriva da “poderida”, ovvero “pentola poderosa” perché nel Medioevo solo i potenti potevano permettersi questo piatto, ma anche perché, secondo gli iberici, gli ingredienti usati davano molta forza. Veniva mangiata durante le feste come piatto beneaugurante e questa tradizione fu importata anche a Napoli.

Qui la lingua ha tramutato il “putrido” in un romanticissimo “matrimonio” tra gli ingredienti: cicoria, scarulelle (scarolelle), verza, borragine, che gli conferisce una nota amarognola, la catalogna (ancora un nome ispanico); la carne tipica è quella di maiale di minor pregio, con tracchie (chiamate anche puntine, costolette o spuntature), salsicce e altri tagli.

Sul fondo si adagia del pane tostato ma in antichità si usavano gli scagliuozzi, le frittelle di polenta a forma triangolare che oggi si trovano nelle friggitorie.

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Quello che i piatti non dicono
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