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16 Aprile 2020 11:00

La storia del soffritto napoletano, il piatto povero che ha conquistato gli intellettuali

Una zuppa forte dal sapore antico come la sua storia. L'umile soffritto napoletano con il tempo ha conquistato i palati di tanti intellettuali come Ciampi e Matilde Serao: ma le sue origini hanno le radici nella Napoli più povera del '700, quella delle zendraglie che elemosinavano gli scarti alimentari dei nobili.

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Il soffritto napoletano è un esempio dell’arte di arrangiarsi tipica della città partenopea. Un piatto cucinato con gli scarti alimentari dei ricchi aristocratici; quegli stessi scarti trasformati poi in un sapore “che sembra dinamite”, così come lo descriveva Matilde Serao. Un piatto brutto da vedere, ma dal sapore inconfondibile.

La zuppa forte – altro nome del soffritto – è un piatto molto antico, di solito servito su delle fette di pane raffermo o usato come condimento per la pasta. Si tratta di una “zuppa tradizionale, povera e proletaria. Si preparava, infatti, con gli scarti della macellazione del maiale ovviamente d’inverno, e si mangiava tradizionalmente in filoni di pane casereccio raffermo, svuotati dalla mollica ed usati a mo' di contenitore”, secondo quanto scritto da Jeanne Francesconi nel primo vero ricettario napoletano. Un piatto povero e di riciclo.

Il soffritto racconta la storia della Napoli più misera, quella della servitù e degli scugnizzi. Una Napoli ben lontana dai fasti della Reggia di Caserta, dei sartù di riso e delle zuppe di cozze. Racconta la Napoli dei vicoli, dei bassi, delle cappelle votive. Quello del soffritto è un gusto che si sta perdendo: sapore forte, per qualcuno addirittura maleodorante, ma che fa parte del tessuto sociale napoletano (almeno) dal 1743, con una storia alle spalle davvero affascinante.

La storia del soffritto napoletano

L’odore dei pezzi di carne cucinati per ‘o zuffritt ha impregnato le lisce pietre dei mercati rionali di Napoli per 200 anni, perché fin dalle prime luci dell’alba le donne preparavano la zuppa forte da vendere al mercato. Ci vuole pazienza per il soffritto, perché il tempo di cottura supera le due ore. Fino a pochi anni fa non era difficile trovare signore con le fornacelle davanti ai “vasci” e i pentoloni ricolmi di interiora come nella pentola del soffritto di Gigione, con un’immagine che ricorda la Sophia Loren pizzaiola ne L’oro di Napoli di Vittorio De Sica.

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Il soffritto di "Da Gigione Hamburgeria&Macelleria"

Ma perché lo cucinavano solo le donne? Perché il soffritto era cotto dalle cosiddette zentraglie, le donne che raccoglievano gli avanzi del re, gli scarti delle trattorie, e che provavano a cavarci fuori qualcosa. Quello delle zentraglie è stato un “lavoro” ostracizzato dalle classi sociali perché sinonimo di poca cura dell’igiene personale, di donne prive di qualsivoglia briciolo di educazione, di persone poverissime che sono costrette a mangiare i rifiuti.

Ma questi scarti, se cucinati a dovere, assumono tutto un altro sapore, un altro sentore e diventano un piatto succulento. Per questo motivo per due secoli i lavoratori più umili del Centro Storico di Napoli, prima di andare a lavoro, si sono concessi una pausa alla bancarella per comprare il soffritto da mangiare in pausa pranzo.

La prima ricetta della zuppa forte ce la tramanda Ulisse Prota Giurleo, un domenicano calabrese che ha passato tutta la vita a Napoli e che ha effettuato degli studi sociologici, quando ancora la sociologia non esisteva. Il monaco saggista ha trovato su un manoscritto notarile risalente al 1743 quella che oggi è ritenuta essere la prima ricetta ufficiale del soffritto:

“Prendi un polmone di porco, taglialo a pezzetti e mettilo in una cassarola a soffriggere con inzogna (strutto) abbondante, e se ti piace un senso d’aglio e qualche fronna (foglia) di lauro. Quando s’è ben soffritto aggiungi un paio di cucchiaiate di conserva di peparoli (peperoni) rossi dolci, per darli un bel colore, e cerasielli (peperoncini piccanti a forma di ciliegie) in polvere quanti ne vuoi, per darli il forte, aggiungendovi una competente quantità d’acqua col sale o di brodo, e continua a far cuocere tutto a fuoco lento. Se dapprincipio non ci hai posto le fronne di lauro e vuoi darli sapore, mettici a questo punto un mazzetto di erbe aromatiche, cioè rosmarina, salvia, lauro, majorana e peperna. Quando vuoi servirlo, togli dette erbe e spargilo fumante nei piatti, sopra croste di pane”.

Questa ricetta, stando al MiBac, sarebbe stata dettata da una certa Annarella, titolare di una taverna nei pressi di Porta Capuana, la zona nei pressi del Tribunale dei Borbone, da sempre frequentata da avvocati e notai.

Il soffritto di Salvatore Di Giacomo e Matilde Serao

Il sapore del soffritto ha ammaliato i lavoratori più umili, ingolositi da un piatto saporito a basso prezzo, ma anche avvocati e notai fin dalla metà del ‘700 come testimonia lo scritto di Prota Giurleo, o le serate in compagnia all'Osteria La Chitarra con il soffritto e i crostini. Tra i grandi appassionati di soffritto troviamo due delle penne più prestigiose della storia italiana: Salvatore Di Giacomo e Matilde Serao.

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Il soffritto de "L’Osteria La Chitarra"

Il primo è stato un intellettuale a tutto tondo, che si è cimentato nel giornalismo, nella prosa, nella poesia, nel teatro, nella musica. A lui si devono alcune delle canzoni e delle opere teatrali più famose di Napoli come Era di Maggio, Marechiaro e Assunta Spina.

Salvatore Di Giacomo era anche un grande amante del soffritto e dedicò una poesia a Giovanni Solla, titolare della taverna La Pagliarella:

“Currite cannaruti, ca mo’ proprio

l′accuppatura de lo tosciano.

È cuotto, e tengo pure na veppetella

d’amarena che co’ l′addore te rezorzeta

no muorto;

currite ‘mbreacune, a sei trise

(tornesi) la carrafa e tengo

la mangiaguerra pure a doje trise”.

Matilde Serao, fondatrice de Il Mattino, prima italiana fondatrice di un giornale e pluricandidata al Nobel per la Letteratura, ha sempre dedicato grande spazio al cibo nei suoi scritti. Ne “Il ventre di Napoli”, pubblicato nel 1884, descrisse così il piatto: “La massima golosità è il soffritto, dei ritagli di carne di maiale cotti con olio, pomidoro, peperone rosso, condensati, che formano una catasta rossa, bellissima all’occhio, da cui si tagliano delle fette: costano cinque soldi. In bocca, sembra dinamite”.

Non solo poeti e scrittori partenopei hanno amato la zuppa forte. Federico Fellini adorava i bucatini col soffritto mentre la versione classica a zuppa pare abbia conquistato i palati finissimi dell’ex Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi e dell’Avvocato Gianni Agnelli. Un piatto nato povero, ma che ha conquistato la bocca dei re.

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Quello che i piatti non dicono
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