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17 Novembre 2020 11:00

La genovese: storia e leggende del celebre primo piatto napoletano

Il ragù alla genovese è uno dei piatti di pasta più gustosi della tradizione napoletana. Si tratta di un sugo cotto molto lentamente, un condimento bianco a base di carne e cipolle. La sua storia è molto ingarbugliata e piena di leggende più o meno dimostrabili: infatti, sono numerosi gli esempi di piatti simili nel resto del mondo.

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La genovese è uno dei piatti più famosi di Napoli, uno di quelli di cui la città partenopea è più gelosa, al punto che fuori dai confini campani sono davvero in pochi a conoscere la gentilezza di questo ragù.

Partiamo dal principio però: cos’è il sugo alla genovese? Si tratta di un condimento bianco, a base di cipolle e carne di manzo: viene cotto a fuoco lento, per tantissimo tempo, finché le ostiche e maleodoranti cipolle non si trasformano in un intingolo cremoso e profumato, dalle numerose sfumature di colore che vanno dal ramato all’ambra. Viene tipicamente utilizzato per condire la pasta e, in questo caso, la tradizione prevede gli ziti spezzati a mano o le mezzane. Si distingue dagli altri piatti napoletani la mancanza del pomodoro e per la tipologia di carne: nella genovese, infatti, è previsto solo il manzo.

La storia della genovese napoletana, tra leggende e reperti

Quando si parla di genovese a Napoli prima o poi c’è sempre qualcuno che si chiede "ma se è napoletana, per quale motivo si chiama così?" e la risposta non è mai una sola. Purtroppo il motivo vero per cui un sugo partenopeo prenda il nome di un’altra zona d’Italia non si conosce, ma sono state avanzate le ipotesi più fantasiose per giustificare il nome di questo piatto.  Eccone alcune.

La più storia più probabile: la genovese potrebbe essere di Genova

Quasi tutti convengono che sia una creazione al 100% napoletana, ma è probabile che non sia proprio vero. Basandoci sugli altri sughi tradizionali italiani e sulle ricette dei libri del ’700 e dell’800, è probabile che il ragù sia effettivamente nato a Genova se non a Ginevra (ma a questo ci arriveremo).

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Le indicazioni geografiche che contraddistinguono i ricettari di questo periodo si rifanno sempre allo "stile" di una determinata città ed è per questo che abbiamo la cotoletta alla milanese o alla bolognese, il ragù alla napoletana e via dicendo. Tra le specialità di Genova all’inizio del 1800 ci sono delle lasagne "alla genovese". Due versioni di lasagna, una magra fatta con un pesto molto simile al classico "pesto genovese" e una "grassa", con gli strati di lasagna intervallati da sugo di carne e parmigiano.

Oggi il sugo di carne è quasi scomparso ma, tra il ’700 e gli inizi del ’900, era una base molto utilizzata. Per realizzarlo, i pezzi di manzo o vitello venivano fatti rosolare lentamente con il lardo, il prosciutto e gli ortaggi, mentre la cottura veniva ultimata con del brodo di manzo. Di solito si utilizzavano tagli molto poveri: l’unico rimasuglio di questa preparazione è il cosiddetto "fondo bruno" che preparano alcuni ristoranti. Il procedimento per questa preparazione è diverso dal classico sugo di carne ottocentesco, ma il principio è lo stesso.

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Come ci sarebbe arrivata a Napoli questa genovese? Per la prima documentazione scritta ci rifacciamo nuovamente alla prima versione dell'Apicio Moderno di Francesco Leonardi, colui che ha scritto il capostipite di tutti i ragù napoletani. Questi "maccaroni" alla napoletana, secondo l’autore devono essere conditi con "con parmigiano grattato, pepe schiacciato e sugo di vitella, o di manzo, ovvero un buon brodo di stufato, o garofanato".

Nella seconda versione del ricettario, Leonardi scrive che può essere aggiunto del pomodoro al condimento. Questo, nell’800, crea una grandissima confusione:

  1. A Genova ci sono le lasagne alla genovese, in due versioni: magra, con il pesto di basilico o grassa, con cipolle e carne;
  2. a Napoli ci sono i maccaroni alla napoletana, anche qui in due versioni: in una con le cipolle, la carne, il parmigiano e il pepe; nell'altra con del pomodoro. Quindi un condimento bianco e un condimento rosso.

Quindi abbiamo due sughi identici con due nomi diversi, il "grasso genovese" e la prima versione dei maccaroni alla napoleana. Inoltre abbiamo un sugo col pomodoro, che diventerà il classico ragù napoletano, e una versione magra del condimento per le lasagne a Genova, che diventerà poi il classico pesto.

La prima versione del ragù, quella che poi diventerà la vera genovese napoletana, sarebbe stata appresa dal cuoco Leonardi grazie agli scambi commerciali tra Genova e Napoli. Il condimento con la carne di manzo diventa un tipico sugo delle classi ricche della città, il ragù rosso si afferma tra le classi più povere grazie all'utilizzo della carne di maiale.

La teoria angioina sulla genovese

Non tutti i reperti sulla genovese sono riconducibili all’800. La fonte più antica risale addirittura al 1285 nel "Liber de coquina", un libro di cucina scritto in latino volgare, presumibilmente a Napoli, dedicato a Carlo II d’Angiò e ritrovato nell’Archivio Nazionale di Parigi. Qui si trova la Tria Genovese, dove "tria" è un termine che risale al Basso Medioevo per indicare la pasta. Questa ricetta racconta di un sugo a cottura molto lenta preparato con cipolle e carne.

Gli Angioini all’epoca del libro si erano da poco insediati a Napoli e l’influenza francese è davvero predominante. Secondo molti la genovese sarebbe una discendenza del "Boeuf à la mode", letteralmente "manzo alla moda", uno dei piatti più celebri di Francia: si tratta senza ombra di dubbio dell’antenato del brasato. Perché "alla moda"? Pare che questo boef sia stato il piatto di portata principale delle grandi feste per secoli.

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Questa teoria è supportata da uno dei ristoranti più importanti della storia della gastronomia, il Grand Véfour del Palais-Royal a Parigi. Uno dei primi 3 Stelle Michelin della Guida Rossa (oggi bistellato) durante la metà del XIX secolo serve il "salmone in intingolo olandese e genovese" come piatto di lusso: questo intingolo è proprio a base di cipolle.

La teoria aragonese sulla genovese

Ogni regnante ha la sua genovese personale, dagli Angioini agli Aragonesi. Sotto il dominio spagnolo si affermano in Italia le Repubbliche Marinare e, tra Napoli e Amalfi, nascono due dei porti più importanti del Mediterraneo. Anche queste origini della genovese concedono la natività del piatto alla città ligure, anche questa teoria riconduce la storia della genovese al rapporto marittimo tra Napoli e Genova.

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La tesi è supportata dai tantissimi scambi che ci sono stati tra i due porti e i due popoli. Nelle antiche cartografie della città partenopea c’è addirittura un vicolo, ormai scomparso, chiamato "vico dei genovesi", popolato da ex marinai innamorati della città che si sono trasferiti a Napoli: forse proprio tra questi vicoli i marinai hanno insegnato ai compagni di ventura la preparazione di questa salsa. La sosta a Napoli in epoca medievale è d’obbligo ed è accertata: tutte le navi dirette verso Oriente attraccano in Campania prima di volgere le vele verso la Turchia.

La teoria elvetica sulla genovese

Abbiamo parlato di Ginevra, ma per quale motivo? Questa tesi ci riporta all’estero, sulle sponde di un magnifico lago alpino. Il termine "genovese" non deriverebbe da Genova ma dal francese Geneve, la città svizzera. Questa interpretazione ai napoletani non piace, forse perché la nazione elvetica non ha grande fama in ambito culinario. La cosa strana è che questa teoria sarebbe direttamente collegata alla leggenda più romantica legata alla nascita di questo piatto, ma anche la più tramandata del capoluogo campano: il cuoco Genovese. Dagli Aragonesi passiamo alla corte dei Borbone.

Il maiuscolo non è messo a caso perché secondo questa leggenda il piatto sarebbe un omaggio a un cuoco che di cognome fa Genovese.

Questo cognome è abbastanza diffuso a Napoli quindi la storia non è campata in aria, ma qui il mito si ingarbuglia: la vulgata popolare è confusa a riguardo, c’è chi parla di un cognome, chi di un soprannome. Questo cuoco, che sarebbe meglio chiamare monzù come venivano chiamati gli chef alla corte dei Borbone, sarebbe nativo di Ginevra e quindi il soprannome sarebbe ‘o Genoves. Anche in questo caso non per la città ligure ma per il “geneves” svizzero.

Perché fuori da Napoli nessuno conosce la genovese?

Leggendo queste teorie sembra che le origini della genovese siano molto più internazionali di quanto uno possa immaginare, allora perché fuori dai confini campani il piatto è pressoché sconosciuto? Le motivazioni possono essere diverse. Innanzitutto la genesi del piatto, pur sembrando marinaresca in base alle fonti, si è trasformata in cucina d’alta classe.

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La presenza della carne di manzo nella preparazione la colloca immediatamente nei piatti aristocratici della storia partenopea, così come l’uso della cipolla nella ricetta tradizionale, la Ramata di Montoro, la colloca nell'alta cucina settecentesca e ottocentesca. Questa cipolla aveva ed ha tutt'oggi un costo più elevato rispetto a una cipolla comune perché ha un sapore unico e una grandissima tenuta della cottura.

La cucina italiana si è diffusa nel mondo soprattutto grazie agli emigrati che hanno popolato tutti gli angoli del pianeta. Queste persone in condizioni di povertà assoluta hanno esportato il ragù napoletano, così come quello alla bolognese, perché sughi poveri. La ricchezza della ricetta è il principale scoglio alla diffusione della genovese fuori dalla Campania, ma non è il solo ostacolo. Altro punto a favore della "segretezza" della ricetta potrebbe essere ancora più semplice: non c'è stato bisogno della genovese all'estero perché ricette con la cipolla, più facili ed economiche, ci sono ovunque.

La cipolla è uno degli alimenti più poveri e trasversali del mondo. In quasi tutte le cucine tradizionali sono presenti delle zuppe, degli stufati, delle creme a base di cipolla che servono a insaporire un piatto o a essere portata principale. Abbiamo già parlato della "genovese" parigina e della zuppa francese, ma gli esempi sono innumerevoli.

In particolare, nell’Europa dell’Est, la zuppa di cipolle è un piatto tipico di tutte le nazioni da Vienna a Mosca. In Romania in particolare ci sono diverse varianti di stufati e zuppe simili alla portata napoletana. C’è l’esempio della tochitură, uno stufato tipico della città di Craiova preparato con piccoli pezzi di carne di maiale fritti con strutto di maiale, con aggiunta di cipolle tritate e soffritte. Il tutto servito con la mamaliga, la polenta romena. Ancora più emblematico è il caso della tokana, uno stufato cotto molto lentamente con acqua, cipolle e carne di agnello. Altro piatto similissimo è il gulasch della Transilvania: qui la tipica portata della cucina austro-ungarica è arricchita da una gran quantità di cipolle e aglio (siamo pur sempre nella terra di Dracula) cotti a lungo insieme alla carne di manzo.

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Quello che i piatti non dicono
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