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25 Luglio 2022 11:00

Dolci conventuali: i peccati di gola nati nei monasteri, oggi must della tradizione

Le cucine dei conventi sono state i primi laboratori di pasticceria, e molti dei dolci italiano più tipici si devono proprio alla fantasie delle suore.

A cura di Martina De Angelis
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La gola è uno dei sette vizi capitali, ma i dolci sono uno di quei peccati di cui il mondo religioso non deve redimersi.  Buona parte dei dolci più iconici della gastronomia italiana – soprattutto siciliani e napoletani, ma non solo – sono nati proprio tra le mura di luoghi sacri: i monasteri, e in particolare i conventi di clausura dove in passato, tranne che per rari casi di vocazione volontaria, tantissime giovani venivano costrette a passare la vita. Acquisizioni che spesso erano accompagnate da ingenti donazioni, che portavano il monastero a svilupparsi come una vera e propria azienda: le ragazze e le donne all’interno erano impegnati nei lavori artigianali più vari, tra cui anche la pasticceria.

L’arte di creare dolci non si sviluppò solo per questo nei conventi: per molte era anche un modo di realizzarsi nonostante la costrizione, spesso l’unica forma di svago dalle regole monastiche proprio perché considerata, in qualche modo, “peccaminosa”. Creando dolci eccezionali per gusto e bellezza, le donne trovavano un modo di lasciare una traccia di loro stesse al di fuori del convento. È così che i monasteri divennero i primi laboratori di pasticceria della storia, ancora tramandata in alcuni conventi al giorno oggi, oppure raccolta da generazioni di pasticceri che hanno mantenuto viva l’eredità delle antiche sorelle.

Il risultato sono una serie di dolci conventuali entrati a far parte così profondamente della cultura italiana da non chiedersi più come o dove sono nati. E invece è merito loro, di quelle ragazze e donne vissute all’ombra del monastero, che nel preparare dolci trovarono la loro vera vocazione.

I Cannoli

Sono uno dei dolci più amati in tutta Italia e nel mondo, ormai famosi ben oltre i confini della Sicilia, la loro terra natia. Sulle origini del cannolo esistono diverse tipologie di ipotesi, ma tutte le versioni concordano su un dettaglio: sono state le suore all’interno dei conventi a idearli. Secondo la teoria più accreditata le prime sono state le sorelle di clausura del Convento di Santa Maria di Monte Oliveto a Palermo, che si sono inventate le cialde fatte a mani, ricotta di pecora, gocce di cioccolata e della zuccata, tocchetti di zucca bianca candita.

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Le Minne di Sant'Agata

Cambia nome e decorazione in base alla città in cui sono preparate, ma nel resto d’Italia sono conosciute semplicemente come le Minne di Sant’Agata. Non si sa bene dove siano nate, ma sono diventate il simbolo di Catania: pare derivino dai culti isidei, da cui deriva anche l'odierna festa dedicata alla santa patrona della città e poi messe a punto nei conventi catanesi. Da non confondere con le Minne delle vergini, nate nel Collegio di Maria di Sambuca, altra specialità conventuale che richiama il seno, in questo caso delle giovani donne vergini. Inserite tra i prodotti agroalimentari tradizionali, le minne di Sant0Agata sono un delizioso mix di sacro e profano dal sapore irresistibile.

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La Frutta di Martorana

La Frutta di Martorana è tra i dolci conventuali più conosciuti, tipici della tradizione dolciaria siciliana ma molto diffusi anche in Calabria. Si tratta di pasta di mandorle modellata in meravigliose miniature di frutta e ortaggi, che vengono dipinte con coloranti alimentari per imitare alla perfezione gli originali. La ricetta è stata inventata circa 500 anni fa dalle Monastero della Martorana, fondato a Palermo dalla nobildonna Eloisa Martorana nel 1194: la leggenda conta che un giorno di autunno arrivò il re per ammirare il leggendario giardino del convento, ma che gli alberi erano spogli per la stagione. Così  la suora cuoca inventò di manipolare il suo dolce alle mandorle e miele a forma di frutti, e di dipingerli in modo che sembrassero veri frutti appesi agli alberi. La trovata fu un successo, e il resto è storia.

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La Sfogliatella Santa Rosa

Irresistibile  dolcetto della tradizione napoletana, la sfogliatella Santa Rosa prende il nome dall’antico monastero di Santa Rosa, oggi diventato un hotel incastonato tra le scogliere della Costiera Amalfitana, precisamente a Conca dei Marmi. Un giorno accadde che una delle monache notasse alcuni avanzi di semola bagnata nel latte, e non volendo sprecarla ebbe un’idea: la miscelò con ricotta, frutta secca e liquore al limone, la infornò e la inserì in un impasto di due sfoglie chiuse, dandole la forma di un cappuccio da monaco. Era nata la sfogliatella, e fu così amata dalle altre sorelle da iniziare a essere venduta al popolo per qualche monete. A Napoli ci arrivò 200 anni dopo, quando il futuro pasticcere Pasquale Pintauro la scoprì e se ne innamorò: trasformò la sua osteria in via Toledo in un laboratorio dolciario, rivisitò la ricetta e cambiò la forma della sfoglia.

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I biscotti ricci

Sono stati resi celebri dal Gattopardo, romanzo dello scrittore Giuseppe Tomasi di Lampedusa, ma sono nati anche loro tra le mura di un convento. I biscotti ricci, così chiamati per via della loro particolare forma sinuosa, sono dei dolcetti squisiti a base di farina mandorle, zucchero, uova e buccia di limone. Sono stati inventati nel convento di Palma di Montechiaro, un piccolo paese della provincia di Agrigento, alla fine dell?ottocento, e le monache di clausura del SS. Rosario ancora oggi li producono usando la stessa ricetta originale per prepararli e venderli ai visitatori.

Il Cous cous al pistacchio

Di origine africana ma fatto con i prodotti locali, il cous cous al pistacchio è una ricetta tipicamente di Agrigento, inventata dalle monache cistercensi del Monastero di Santo Spirito e tramandata per secoli da una generazione all’altra di consorelle. Ancora oggi le monache lo confezionano con gli antichi e originali sistemi, impastando a mano la semola di grano duro insieme a mandorle e pistacchi. Proprio per questo, la ricetta originale rimane un segreto ben custodito dalle sorelle del monastero.

Le fedde del Cancelliere

Il Monastero del Gran Cancelliere di Palermo non esiste più, ma la sua invenzione più celebre continua a vivere tra le strade della città. Sono le “fedde” (natiche, in dialetto) del Cancelliere, un dolcetto di pasta di mandorle al pistacchio, ripieno di crema e dalla forma singolare che gli è valsa il curioso nominativo. È tra le mura di un altro ex convento palermitano che la tradizione dolciaria di questa particolare prelibatezza viene tenuta in vita: le fedde del Cancelliere, infatti, vengono realizzate nella dolceria I Segreti del Chiostro, nell’ex Monastero domenicano di Santa Caterina.

Il trionfo di gola

L’ex Monastero domenicano di Santa Caterina è stato teatro anche di un’invenzione tutta sua: è il trionfo di gola, preparato ancora con orgoglio da I Segreti del Chiostro, progetto di riscoperta e valorizzazione delle antiche ricette della pasticceria conventuale palermitana. Sontuoso, elaborato e complesso, il trionfo di gola è una torta a base di  pan di Spagna, pasta di mandorle, pistacchi e canditi, un’espressione perfetta dell’opulenza dell’arte pasticcera siciliana. Era il dolce centrale fra tutti quelli serviti nei banchetti dell’aristocrazia palermitana, e infatti viene citato ne Il Gattopardo e in altre opere letterarie siciliane.

La Pastiera napoletana

Dolce simbolo della tradizione pasticcera napoletana, la pastiera è amata ormai in tutta la penisola per il suo gusto ineguagliabile. La sua origine è legata a una serie di leggende, tra cui quella della sirena che portò gli ingredienti in dono agli dei, i quali li mescolarono creando la pastiera per poi incaricare Partenope di farne omaggio ai napoletani. In realtà, la nascita della pastiera si deve alle monache di clausura del Convento di San Gregorio Armeno, famose per essere delle eccellenti pasticcere. Furono loro per prime a ideare un dolce che fosse un simbolo di pace da preparare per il Giovedì Santo, con ingredienti che simboleggiassero la resurrezione e i fiori d’arancio del loro giardino. Secondo la storia, le suore impastavano la pasta in modo del tutto singolare: le suore con i fianchi più prosperosi si sedevano sull’impasto sistemando sopra i sedili di marmo del chiostro, e si dimenavano sussurrando preghiere. Di solito le sorelle preparavano la pastiera per i nobili e l’alta borghesia napoletana, e la leggenda racconta che quando i servitori andavo a ritirare l’ordine,  aprissero il portone abbastanza da far uscire nei vicoli il profumo del dolce, per dare un conforto ai meno fortunati.

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Gli Amaretti di Santa Croce

I celebri Amaretti di Santa Croce, prelibatezza tutta toscana, sono nati tra le mura del convento di Santa Cristiana di Santa Croce sull’Arno, da cui prendono anche il nome. Gli viene attribuita come data di nascita ufficiale la fine dell’Ottocento, ma sicuramente le monache li preparavano già da tempo. Per centinaia di anni la produzione degli amaretti rimase dentro le mura della comunità monastica, e i biscotti vennero usati dalle suore come ringraziamento verso i loro benefattori.  Solo a partire dalla metà del secolo scorso è stata resa pubblica la ricetta, e ha raggiunto i fornai e i pasticceri della città: la formulazione iniziò a circolare di bocca in bocca, e presto gli amaretti divennero dominio degli artigiani dolciari santacrocesi. La tradizione  si sopì per alcuni anni, ma ha preso vigore di nuovo grazie alla Pro Loco e ai fornai locali, che hanno lavorato insieme per far sì che i preziosi amaretti inventati dalle suore non andassero perduti.

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Quello che i piatti non dicono
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