
È capitato spesso anche a te di notare sulla confezione di carne di pollo o tacchino la dicitura “allevato senza uso di antibiotici”? Per molti consumatori è un’affermazione rassicurante: suggerisce, implicitamente, una produzione più sicura, più “naturale”, forse più sana. Il tema è stato affrontato da Il Fatto Alimentare, con una lettera di un lettore che chiedeva chiarimenti sull’effettiva legittimità e significato di quella dicitura. La risposta di Unaitalia ha chiarito che la dicitura è consentita solo se prevista da un disciplinare di etichettatura volontaria, nel quale è documentato che l’animale non abbia mai ricevuto trattamenti antibiotici.
Ma cosa significa, concretamente, “allevato senza uso di antibiotici”? Quali sono i requisiti che si devono rispettare? Quali controlli vengono effettuati? E infine: per un consumatore, quanto cambia rispetto a carne “normale”? In questo articolo esploriamo tutte queste domande, facendo chiarezza su un’etichetta che sta diventando sempre più comune e che richiede attenzione per essere compresa correttamente.
Come nasce l'etichettatura volontaria per la carne di pollo
La dicitura in questione non nasce dal nulla, ma si inserisce in un contesto normativo italiano ed europeo. In Italia, il Decreto Legislativo 27 ottobre 2011, n. 202 recepisce il sistema volontario di etichettatura delle carni di pollame, in attuazione del Regolamento (CE) n. 543/2008 (e del precedente 1538/91) che prevedeva che le informazioni volontarie potessero essere fornite, purché previste in disciplinari approvati.
In particolare, con decreto 29 luglio 2004 (Gazzetta Ufficiale 13 ottobre 2004) il Ministero delle Politiche Agricole (l'attuale Ministero dell'Agricoltura, Sovranità alimentare e Foreste) ha definito le modalità per l’applicazione del sistema volontario di etichettatura delle carni di pollame.
Il disciplinare di Unaitalia per le carni di pollame (codice IT001EA) che dà vita a questa etichetta è stato autorizzato dal MiPAAF e costituisce uno strumento attraverso cui tutte le informazioni aggiuntive (origine, allevamento, alimentazione, uso o non uso di farmaci) possono essere riportate in etichetta.
È dunque importante capire che non si tratta di un semplice slogan commerciale, ma di un claim che può essere utilizzato solo all’interno di una filiera certificata e tracciata, grazie a un disciplinare che è stato approvato dallo Stato.
Cosa è vietato e cosa è consentito in Italia
Prima di inoltrarci nella questione, è bene fare chiarezza sui divieti che la legge impone, in modo da capire la differenza con l'etichettatura di cui stiamo parlando. In Italia (e in tutta l’Unione Europea) non è vietato usare antibiotici negli allevamenti in assoluto, ma è severamente regolamentato e in parte limitato a specifici casi.
- È vietato l’uso di antibiotici come promotori della crescita. Questo divieto esiste dal 2006, con l’entrata in vigore del Regolamento (CE) n. 1831/2003, che ha vietato in tutta l’Unione Europea l’impiego di antibiotici nei mangimi per far crescere più velocemente gli animali o migliorare l’efficienza produttiva. In altre parole, non si possono più usare antibiotici “a scopo preventivo o produttivo”. L’uso sistematico e profilattico (cioè dato in modo preventivo a tutti gli animali sani, “per sicurezza”) è oggi fortemente limitato dal Regolamento (UE) 2019/6 sui medicinali veterinari, entrato in vigore nel 2022. Significa che ora si può fare solo in casi eccezionali, giustificati dal veterinario, per singoli animali o piccoli gruppi, quando il rischio di malattia è molto elevato e non ci sono alternative.
- È consentito, ma solo in casi precisi l'uso terapeutico, cioè per curare animali effettivamente malati, che resta pienamente legittimo — anzi, doveroso per motivi di benessere animale. In questi casi l’antibiotico viene somministrato sotto prescrizione veterinaria, annotato nel registro dei trattamenti, e deve sempre rispettare i tempi di sospensione prima che l’animale (o i suoi prodotti) possano entrare nel mercato alimentare.

Cosa vuol dire “allevato senza uso di antibiotici”
Spesso l’espressione sembra semplice, ma in realtà racchiude un significato tecnico preciso. Secondo Unaitalia, la dicitura “allevato senza uso di antibiotici” significa che gli animali non hanno mai ricevuto alcun trattamento antibiotico fin dalla nascita. Analogamente, l’ente certificatore CSQA sottolinea che il claim “allevato senza antibiotici” può essere utilizzato solo se l’animale non è stato trattato per tutto il ciclo di vita (o, in alcuni casi, per una parte predeterminata) con antibiotici.
In pratica, tutto questo significa che:
- l’allevatore deve scegliere, preventivamente, che quel lotto (o ciclo) di animali sia “senza uso di antibiotici” e comunicarlo al sistema di tracciabilità;
- non deve essere somministrato alcun antibiotico a quegli animali dal giorno della schiusa (o dell’introduzione) fino al momento del macello;
- devono essere rispettati controlli e registri che attestino che ciò sia avvenuto, oltre ad analisi che eventualmente verifichino la presenza di residui o altre tracce.
È dunque un impegno maggiore rispetto a allevare “secondo la norma”. Non significa solo “rispetto dei tempi di sospensione” – che per la legge è obbligatorio – ma che l’antibiotico non è stato usato proprio.
Cosa sono i tempi di sospensione
I tempi di sospensione sono intervalli istituiti per garantire che eventuali residui del medicinale vengano completamente eliminati dall’organismo dell’animale prima che la carne o le uova entrino nella catena alimentare. Ogni antibiotico (o altro farmaco veterinario) ha un suo tempo di sospensione specifico, fissato in base a studi tossicologici e farmacocinetici: può variare da pochi giorni fino a diverse settimane, a seconda della sostanza, della specie animale e del tipo di prodotto destinato al consumo (carne, latte, uova, ecc.). Il rispetto di questi tempi è obbligatorio per legge e viene controllato dai veterinari dell’ASL, che verificano i registri di trattamento e possono disporre analisi di laboratorio. Solo quando i tempi di sospensione sono rispettati si può essere certi che la carne sia “esente da residui” e quindi sicura per il consumo umano.
La dicitura “allevato senza uso di antibiotici” fa un passo oltre: non si limita a rispettare il tempo di sospensione dopo un trattamento (come deve fare qualsiasi allevamento convenzionale), ma dichiara che nessun trattamento antibiotico è mai stato effettuato per tutto il ciclo di vita dell’animale.
In altre parole:
- nel primo caso (allevamento standard) l’antibiotico può essere usato, purché in modo corretto e con i tempi di sospensione rispettati;
- nel secondo (allevato senza uso di antibiotici) l’antibiotico non entra mai in gioco.

Quali sono i controlli e la tracciabilità
Una delle maggiori preoccupazioni del lettore di Il Fatto Alimentare era: “Come posso essere sicuro che quanto dichiari sia vero?” La risposta va nel capitolo dei controlli. Nel disciplinare Unaitalia si descrive un sistema di tracciabilità che ha dei parametri specifici.
- ogni allevamento aderente è inserito in una banca dati dell’ente certificatore, con informazioni su numero di animali, date di introduzione e uscita, intenzione di utilizzo della dicitura in etichetta.
- il lotto che intende usare la dicitura “senza uso di antibiotici” deve essere separato dagli altri lotti – in termini temporali e/o spaziali – per evitare contaminazioni o confusione.
- si controlla il registro dei trattamenti veterinari obbligatorio, vidimato dalla ASL competente, che deve attestare che non sono stati effettuati trattamenti antibiotici su quegli animali.
- vengono anche condotte analisi su mangimi, acqua, muscoli e organi al macello per verificare la coerenza delle informazioni fornite.
- l’ente terzo (come CSQAo altri) svolge audit periodici, verifiche ispettive e campionamenti analitici.
In questo modo la filiera garantisce che il claim non sia solo una formula pubblicitaria, ma sia supportato da dati e controlli effettivi.
Qual è il reale valore per il consumatore
Ma quali sono i vantaggi reali per un consumatore che opta per una scelta del genere? Dal punto di vista del consumatore, “allevato senza uso di antibiotici” può rappresentare sia un maggiore livello di trasparenza perchè l’etichetta porta un’informazione che va oltre quanto richiesto dalla normativa base, ma anche un differenziale qualitativo relativo al modo di allevamento: la scelta di non usare antibiotici implica che l’allevamento deve prevedere condizioni tali da ridurre al minimo le malattie, una buona gestione, magari minori densità, migliori condizioni igieniche e di benessere animale.
Tuttavia, ci sono alcune precisazioni importanti: l’assenza di antibiotici non significa infatti automaticamente “assenza di residui” (che, per legge, deve essere garantita in ogni caso) né “migliore valore nutrizionale” o “assoluta sicurezza” rispetto a carni convenzionali. Per ottenere la dicitura, l’azienda deve rispettare requisiti aggiuntivi, ma il consumatore resta comunque dipendente dalla fiducia nel sistema di tracciabilità e certificazione. Inoltre è bene specificare che il claim è riferito a quel ciclo, quel lotto, e non a una garanzia “per sempre” del marchio o della razza.
In sintesi: può essere un buon indicatore di filiera più attenta, ma non è una “medicina” per tutti i dubbi relativi a residui o salute.

I limiti del sistema
Purtroppo, non tutte le etichette hanno lo stesso livello di “forza” e chiarezza: un claim molto generico senza identificare lotto o ciclo potrebbe essere meno significativo. Come faceva notate il lettore del Fatto, deve essere difficile – e anche poco credibile aggiungeremmo – che in un allevamento intensivo un numero elevato di capi possa effettivamente essere gestito mai con antibiotici. È importante quindi che il consumatore verifichi se la dicitura è accompagnata da una scheda del disciplinare o logo riconosciuto e se il marchio/azienda rende trasparente la filiera.
Anche se l’uso preventivo degli antibiotici è ridotto, l’uso terapeutico è ancora consentito in allevamento quando necessario per salute animale: la dicitura “senza uso di antibiotici” esclude proprio quel ciclo dall’uso, ma non significa che tutti gli allevamenti o capi siano sempre in tale stato.
Infine, il consumatore deve ricordarsi che standard come “benessere animale”, “alimentazione vegetale”, “genotipo a lento accrescimento” etc., possono influire sul prezzo e sulla disponibilità del prodotto: scegliere un pollo “senza antibiotici” può significare un maggior costo o minore diffusione.
Restano da monitorare due aspetti: la coerenza tra etichetta e realtà produttiva, e la capacità di informare in modo chiaro (senza generare false attese) su cosa significhi concretamente quel claim.

Come considerare l'etichetta “allevato senza uso di antibiotici”
L’etichetta “allevato senza uso di antibiotici” rappresenta una tappa importante nella comunicazione della filiera avicola italiana: non è uno slogan vuoto, ma è disciplinata, certificata, controllata. Tuttavia, per il consumatore è importante comprendere bene che essa indica una scelta specifica di allevamento, riferita a un ciclo produttivo detto, e non un’automatica garanzia assoluta su tutti i fronti.
Quando la vedi, puoi considerarla come un segnale positivo: un produttore che vuole mettere in evidenza una filiera più attenta, più trasparente. Ma vale la pena guardare anche il resto dell’etichetta, informarsi sul marchio, capire se la filiera è tracciata, e valutare se il prezzo e le aspettative corrispondono a ciò che si vuole ottenere.
Breve vademecum per capire l’etichetta “allevato senza uso di antibiotici”
Non si tratta di una questione semplice da capire, per questo ecco un vademecum che puoi controllare per avere informazioni chiare e immediate su cosa significhi nella pratica questa estichetta.
1. Cosa significa davvero
- Gli animali non hanno mai ricevuto antibiotici durante tutta la loro vita, dalla nascita fino al macello.
- La filiera deve dimostrarlo con registri veterinari, analisi e controlli da parte di un ente terzo.
- È una dicitura volontaria, non obbligatoria: l’azienda sceglie di aderire a un disciplinare approvato dal Ministero dell’Agricoltura.
2. Attenzione a cosa non significa
- Non vuol dire “esente da residui di antibiotici”: quello è già obbligatorio per legge per tutte le carni.
- Non vuol dire necessariamente “più salutare” o “più nutriente”.
- Non vuol dire che tutta la produzione del marchio è così: vale solo per quel ciclo o lotto di animali.
3. Come verificare se è una dicitura seria
- Cerca un riferimento al disciplinare (ad esempio “IT001EA – Unaitalia” o marchi come CSQA, Certiquality, ecc.).
- Controlla la coerenza dell’etichetta: la frase deve essere chiara, non generica (esempio: “pollo senza antibiotici” è diverso da “pollo allevato senza uso di antibiotici”).
- Verifica la tracciabilità: alcuni marchi forniscono QR code o link per consultare la filiera e il ciclo di allevamento.
- Guarda il logo del sistema di certificazione: se è presente, la dicitura è sottoposta a controlli verificabili.
4. Cosa garantisce il disciplinare
- Registrazione di ogni allevamento e ciclo produttivo in una banca dati.
- Controlli dei registri veterinari vidimati dalla ASL.
- Analisi su mangimi, acqua e campioni di carne.
- Audit e ispezioni da parte di enti terzi (come CSQA).
- Tracciabilità fino al macello, con separazione dei lotti.
5. Cosa cambia per te
- È una scelta più attenta dal punto di vista ambientale e sanitario (riduce il rischio di resistenza agli antibiotici).
- Può implicare maggior benessere animale (allevamenti meno affollati, più monitorati).
- Di solito comporta un costo più alto: la produzione “senza antibiotici” è più impegnativa.
- Ma attenzione: la sicurezza alimentare è già garantita per tutti i prodotti regolari sul mercato.
6. In breve: come riconoscere un’etichetta trasparente
- Dicitura completa e chiara (“allevato senza uso di antibiotici”, non solo “senza antibiotici”).
- Presenza di un codice di disciplinare (ad esempio IT001EA).
- Riferimento a un ente di certificazione indipendente.
- Possibilità di verificare online il ciclo produttivo.
- Coerenza con altre informazioni (origine, benessere animale, tipo di allevamento).