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22 Maggio 2025 18:00

Senza zuccheri aggiunti, ma con un pizzico d’illusione: come l’effetto framing influenza le tue scelte

Dal “senza grassi” al “ricco di fibre”: il cibo parla, e spesso ci convince ancora prima di assaggiarlo. Colpa (o merito) dell’effetto framing.

A cura di Francesca Fiore
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Chi l’avrebbe detto che un innocente cartellino al supermercato potesse avere tanto potere? Eppure succede ogni giorno: bastano due parole ben piazzate – magari “senza zuccheri aggiunti” o “naturalmente leggero” – e il nostro cervello si rilassa, la mano afferra la confezione, e voilà: abbiamo appena scelto con il cuore (e un pizzico di illusione), non con la testa. Benvenuti nel magico mondo dell’effetto framing, il trucco psicologico che non cambia il prodotto, ma cambia noi. È la differenza tra dire che un piatto è “ricco di fibre” oppure che “non ti farà rimpiangere il dessert” – nel primo caso pensi a salute, nel secondo ti senti furbo. In entrambi, stai cadendo nella stessa trappola retorica, con stile.

Nel cibo, dove gusto, emozione e marketing si intrecciano ogni giorno, il framing è ovunque: tra gli scaffali, nei menu, nelle pubblicità che promettono leggerezza con la stessa intensità con cui un cannolo promette croccantezza. Ti spieghiamo come le parole manipolano la percezione del cibo più di quanto faccia il burro, e perché dovremmo imparare a leggere le etichette, o meglio i claim dei prodotti, con un pizzico di sano cinismo.

Cos'è l'effetto framing e come si applica al cibo in vendita

L’effetto framing – che in italiano suona un po’ meno chic come effetto cornice – è quel fenomeno psicologico per cui il modo in cui un’informazione viene presentata influenza il nostro giudizio, anche quando il contenuto resta identico. È un po’ come servire lo stesso piatto su un piatto di ceramica fine o in una vaschetta di alluminio: il gusto è lo stesso, ma la percezione cambia eccome.

A coniare il termine, o meglio a svelare al mondo quanto siamo influenzabili anche quando pensiamo di essere razionali, sono stati Daniel Kahneman e Amos Tversky, due psicologi che negli anni ’70 hanno avuto la brillante idea di dimostrare che l’essere umano, davanti alle scelte, spesso sceglie… male. O meglio: sceglie in base a come viene incorniciata l’alternativa, e non ai dati nudi e crudi.

Per capirci, se ti dico che un succo ha “il 90% di vitamina C in più rispetto alla media”, sei già convinto che ti farà bene. Se invece ti dicessi: “Contiene anche conservanti, zuccheri e aromi naturali dal vago sapore di agrume”, forse ci penseresti due volte. Peccato che stiamo parlando dello stesso prodotto.

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Effetto framing, il "padrone" silenzioso del carrello

Nel mondo del cibo, dove l’etichetta è spesso più seducente del contenuto, l’effetto framing è un ingrediente in più: e non sempre dichiarato in etichetta. È una sorta di padrone silenzioso del carrello: non grida, non mente apertamente, ma insinua, sussurra, suggerisce. E spesso convince. Le aziende lo usano con la stessa maestria con cui uno chef dosa il sale: non si deve sentire, ma deve esserci.

Prendiamo le classiche etichette: “senza zuccheri aggiunti”. Suona bene, vero? Quasi terapeutico. Peccato che in molti casi lo zucchero ci sia lo stesso, sotto mentite spoglie: sciroppo di riso, succo d’uva concentrato, miele… tecnicamente “naturali”, ma sempre zuccheri. È il framing della privazione virtuosa: ti tolgo qualcosa di cattivo (lo zucchero “aggiunto”), così pensi che ciò che resta sia buono.

Altro esempio: “Solo 99 calorie”. Che siano uno snack al cioccolato o una merendina con il 15% di aria incorporata, quelle 99 calorie ti fanno sentire leggero, in controllo. Anche se in realtà potresti aver mangiato più zuccheri di una fetta di torta. Ma il framing qui è calorico e psicologico: sotto le 100 calorie, tutto è perdonato.

E vogliamo parlare dei prodotti “ricchi di proteine”? Sono ovunque: yogurt, biscotti, perfino patatine. Poco importa se le proteine siano poche o se siano accompagnate da grassi, sodio e altre delizie poco “fit”: se c’è scritto “proteico”, il framing trasforma lo snack in un alleato del benessere.

Poi c’è l’intramontabile “100% naturale”, un classico da mensola alta. Nessuna legge fissa cosa significhi con precisione, ma suona bene, fa pensare a pascoli verdi, mani artigiane e ingredienti che crescono sorridendo al sole. In realtà potrebbe trattarsi di un prodotto industriale con zero additivi, ma anche zero contatto con la natura.

Insomma, nel marketing alimentare, l’effetto framing non è solo usato: è condito, impiattato e servito con grande cura. Perché se il gusto si conquista al palato, l’idea di qualità – quella – si gioca tutta tra occhi e parole.

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Esempi di effetto framng che puoi trovare al supermercato

L’effetto framing, nel mondo alimentare, non è una teoria astratta: è lì, tra gli scaffali del supermercato, nel menu del fast food, sulle etichette dello yogurt al gusto “buona coscienza”. Lo incontriamo ogni giorno, anche senza accorgercene. Ecco alcuni esempi reali che dimostrano come la forma batta spesso la sostanza.

75% magra" vs "25% grassa". Stesso hamburger, due destini diversi. Se ti dico che è “75% carne magra”, lo immagini sano, quasi light. Ma se ti dicessi che contiene “il 25% di grasso”? Improvvisamente il panino ingrassa anche solo a guardarlo. Il contenuto è identico, ma il framing trasforma una fettina in una scelta alientare o in un peccato capitale.

"Senza zuccheri aggiunti". Come dicevamo, è un classico delle merendine e dei succhi: sembra un invito alla virtù, ma spesso è solo un modo elegante per dire che gli zuccheri c’erano già, magari sotto forma di succo concentrato o miele. Tradotto: il tuo succo all'“albicocca pura” è dolce come una bibita, ma ti fa sentire sano come se avessi appena spremuto un frutto con le tue mani.

"Solo 100 calorie!". La formula magica per vendere snack che non saziano, ma almeno non ti fanno sentire in colpa. Peccato che quelle 100 calorie siano spesso tutte da zuccheri semplici e grassi di palma, ma ehi, è sotto quota cento: chi osa giudicare?

"100% naturale". Altra perla di ambiguità legale che già abbiamo citato: cosa significa davvero “naturale”? Non sempre molto. Potrebbe voler dire che non ci sono conservanti chimici, ma non garantisce né qualità né genuinità. Il tuo brodo “naturale” potrebbe essere stato imbottigliato sei mesi fa in uno stabilimento industriale. Ma suona rassicurante, no?

Il menu “fit” del fast food. Molte catene ormai offrono “scelte leggere” o “piatti benessere”. Un’insalata che arriva a 600 kcal con il condimento incluso? Un panino “healthy” con più sodio del tuo intero fabbisogno giornaliero? Tranquillo, se c’è scritto fit, allora sei a dieta, anche se stai mangiando con due mani.

"Integrale": sì, ma quanto? Spesso troviamo pani, biscotti o cracker etichettati come “integrali”, ma leggendo bene gli ingredienti scopriamo che contengono solo una minima percentuale di farina integrale, con il resto tutto raffinato. Ma se il nome è giusto, chi si ferma a leggere l’etichetta?

Alla fine, l’effetto framing non è il cattivo della storia: non è lui a farci comprare biscotti “senza sensi di colpa” o succhi “naturalmente zuccherati” — siamo noi a volerci sentire meglio mentre lo facciamo. Il framing funziona perché ci conosce bene: sa che ci piace credere di scegliere con la testa, anche quando a decidere è il lessico. Capirlo, però, è già un ottimo primo passo: ci rende consumatori più consapevoli, meno suggestionabili e magari un po’ più curiosi davanti a certe etichette “oneste a metà”. Perché sì, anche il marketing sa cucinare. E spesso, la sua specialità è come ti serve le informazioni, non cosa ti mette nel piatto.

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Quello che i piatti non dicono
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