Nel corso del podcast One Morte Time, condotto da Luca Casadei, lo chef stellato Giorgio Locatelli ha condiviso una riflessione ampia sulla ristorazione e sul rischio che la cucina perda il proprio ruolo culturale. Ma anche raccontato delle vessazioni e degli abusi subiti quando era un giovane cuoco.
C’era un tempo in cui andare al ristorante era un gesto solenne: un compleanno, una promozione, un amore da festeggiare. Si sceglieva con cura, si stava seduti con rispetto, si ascoltava il piatto come si ascolta una storia. Oggi, quel tempo sembra appartenere a un’altra era — o almeno così la pensa Giorgio Locatelli, voce autorevole e mai accomodante della cucina italiana nel mondo. Nel podcast One Morte Time, condotto da Luca Casadei, lo chef si racconta senza filtri: la sua è una riflessione acuta, lucida, a tratti nostalgica ma tutt’altro che rassegnata. Critica il culto dell’apparenza, la corsa all’“instagrammabilità”, l’appiattimento globale del gusto. Ma soprattutto ci invita a una domanda urgente: che fine ha fatto il senso della tavola?
Locatelli apre l’intervista con un’amara constatazione: il gesto del “mangiare fuori” ha perso la sua sacralità. "Una volta si andava al ristorante per celebrare qualcosa. Era un gesto speciale. Oggi è diventato un passatempo qualsiasi, un contenuto da postare". Il cambiamento, secondo lo chef, è evidente: si è passati dal ristorante come spazio simbolico, in cui si condivideva un’esperienza, al ristorante come palcoscenico da social network. Una trasformazione che snatura il senso originario della tavola.
Al centro della critica di Locatelli c’è la spettacolarizzazione del piatto. Oggi, afferma, la qualità viene spesso misurata in termini puramente visivi: "Il lusso oggi è diventato la presentazione. Il valore di un piatto si misura in quanto è instagrammabile, non in quanto è buono o significativo". In questa logica, molti giovani chef finiscono per rincorrere le mode visive globali, perdendo di vista la coerenza con la propria storia, il proprio territorio, i propri ingredienti.
Lo chef lancia poi un monito contro la standardizzazione del linguaggio gastronomico. Secondo Locatelli, si assiste a un'omologazione crescente: "Troppi ristoranti in giro per il mondo vogliono cucinare come se fossero a Londra. Ma così perdiamo l’anima dei luoghi". L’eccessiva emulazione dei modelli del Nord Europa o delle grandi capitali rischia di cancellare le micro-identità culinarie, riducendo la ricchezza della diversità gastronomica.
Il cuore del discorso di Locatelli sta in un’idea semplice, ma potente: cucinare è un gesto culturale, narrativo, umano. "Ogni piatto racconta qualcosa. La cucina non è solo tecnica, è cultura, è chi sei". Per lui, un piatto ben riuscito è quello che parla – della persona che lo ha preparato, del luogo da cui proviene, di una memoria condivisa. Senza questa dimensione, anche l’alta cucina rischia di diventare un esercizio sterile.
Locatelli affronta anche un tema spesso tabù che però in questi anni ha sollevato molte discussione accese: il peso della Stella Michelin nel mondo della ristorazione. "La stella è importante, certo. Ma non può essere l’unico scopo. Se cucini solo per ottenerla o mantenerla, perdi di vista il senso del mestiere". Una visione lucida, che invita a rimettere al centro la coerenza, il messaggio, il senso profondo del proprio lavoro. Il premio, secondo Locatelli, dovrebbe essere una conseguenza, non un’ossessione. E aggiunge: "È come quando un attore recita solo per l’applauso e non per il personaggio".
Lo chef originario di Varese riflette sul senso del fare cucina oggi, specie per le nuove generazioni: "Oggi molti ragazzi vogliono fare gli chef per diventare famosi, non per raccontare qualcosa con il cibo". Un richiamo alla sincerità del mestiere, alla passione autentica, e alla necessità di resistere alla tentazione dell’apparenza. Un invito a tornare all’essenza, più che all’effetto.
Lo chef ha raccontato di aver subito umiliazioni e abusi sia a Londra che a Parigi, sottolineando come queste esperienze siano state parte integrante del suo percorso professionale. In particolare, ha menzionato episodi di bullismo tra giovani cuochi, evidenziando la necessità di un cambiamento culturale in cucina, ma anche di maltrattamenti da parte del personale più qualificato. "Non ti davano neanche tanto da mangiare, poi non è che c’era tanto tempo, toccava mangiare in piedi. Ricordo un giorno di Natale seduto sul bidone dell’immondizia con una salsiccia, non due, una". In particolare, il periodo in cui era in Francia, talmente stressante la sfiorare la malnutrizione e "il collasso totale": "Dopo la Francia, tornato a casa, pesavo qualcosa come 60 chili. Mia mamma mi portò dal dottore perché ero veramente magro, magro. Lui diceva che avevo un inizio di malnutrizione. Ma tu ti immagini uno che fa da mangiare per uno che paga 150 euro quel periodo lì, a mangiare e tu sei malnutrito. Là fuori pagavano 5mila franchi a mangiare, bevevano bottiglie da 50mila franchi".
Tra riflessioni dense e critiche al sistema, Giorgio Locatelli non rinuncia a quelle che potremmo chiamare le “verità del cucchiaio”. Come quando, con la naturalezza di chi non accetta compromessi, dice: "Il risotto si mangia con il cucchiaio, non con la forchetta. Sempre". Una battuta? Forse, ma anche un piccolo manifesto: per Locatelli, la cucina è fatta di dettagli, di gesti che hanno un senso, di scelte che raccontano chi sei. Anche un cucchiaio può fare la differenza, se usato con consapevolezza.