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27 Settembre 2025 9:00

L’onda lunga del poke: da piatto hawaiano a format esplosivo del fast casual

Dalle pescherie di Oʻahu — dove è solo pesce a cubetti con sale, alghe e kukui — alle bowl personalizzabili che dominano delivery e catene in Europa: la sua storia, i numeri del boom, le differenze reali tra “poke” e “poke bowl” e una guida per mangiarlo in modo sicuro e sostenibile senza tradirne l’identità. Ecco tutto quello che devi sapere sul poke.

A cura di Francesca Fiore
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Negli ultimi anni il poke è passato da specialità locale delle Hawaii a format globale del fast casual e del delivery. In Italia la crescita è stata lampo: al 30 giugno 2022 i punti vendita specializzati erano già 820, con un fatturato aggregato stimato nel primo semestre del 2022 è di 328 milioni di euro, pari a un +117% rispetto al 2021. Questi dati aiutano a capire perché parliamo di uno dei fenomeni gastronomici più esplosivi dell’ultimo decennio.

Oggi ti raccontiamo cos’è davvero il pokè, da dove nasce e come ha fatto a trasformarsi da piatto tradizionale hawaiano a fenomeno globale che conquista metropoli, food court e piattaforme di delivery in tutto il mondo.

Che cos’è davvero il poke hawaiano

Prima delle “bowl” alla moda, il poke era — e alle Hawaii è ancora — un gesto e un sapore essenziale. La parola poke in hawaiano significa “tagliare trasversalmente a pezzi”: un riferimento diretto al modo in cui si prepara il pesce. Nella versione storica il piatto è composto da cubetti di pesce locale conditi con sale marino (paʻakai), alghe (limu/ogo) e ʻinamona (semi di kukui tostati e tritati con sale). Nessun riso, avocado o frutta: è semplicemente pesce condito, spesso servito come antipasto o piatto quotidiano. Con il tempo si sono aggiunti condimenti d’influenza giapponese come la salsa di soia (shoyu) e olio di sesamo, ma la base identitaria rimane quella.

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Se oggi entri in un grocery dell’arcipelago trovi banchi dedicati al poke venduto a peso; localmente “poke bowl” significa semplicemente il poke servito sopra riso cotto, ma non si tratta dell’insalatona iper-componibile tipica delle catene occidentali. A Oʻahu i supermercati e i fish market lo offrono da decenni, e non è insolito acquistarlo “by the pound” come un qualsiasi pupu (termine locale per indicare un aperitivo o stuzzichino) da gastronomia.

Dalla tradizione alla “bowl” globale

Quando il piatto approda sulla terraferma statunitense e poi in Europa, incontra delivery, personalizzazione e linguaggi social. Nasce così la poke bowl contemporanea: una ciotola completa con base di riso (o altri cereali), proteine crude o cotte, verdure, frutta e salse in molte combinazioni. È un adattamento moderno — e di grande successo commerciale — ma distinto dal poke tradizionale, che resta essenziale e centrato sul pesce.

Alle Hawaii non mancano voci che chiedono di riconoscere la storia del piatto. Lo chef Mark Noguchi, tra i più ascoltati a Honolulu, ha più volte criticato la “commodification” del poke sulle mainland: il rischio, dice, è che un piatto intimamente legato a un luogo e a una cultura venga spogliato del proprio contesto quando diventa format globale. Non significa vietare le reinterpretazioni, ma ricordare da dove si parte.

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Cosa conta quando componiamo una bowl

La popolarità del format ha acceso i riflettori sulle filiere. Per il pesce, l’approccio più solido è la tracciabilità: verificare zona FAO e metodo di pesca/allevamento, consultare le guide del WWF per scegliere specie e stock consigliati e riconoscere il marchio blu MSC, che certifica filiere di pesca valutate sostenibili e tracciate lungo la catena di custodia. Sono strumenti pratici per orientare gli acquisti senza rinunciare al piatto.

Per ingredienti simbolo come l’avocado, la letteratura scientifica mostra che l’impronta idrica varia sensibilmente per area e tecnica colturale: studi in Messico — principale bacino produttivo — misurano quote “green” (piogge) e “blue” (irrigazione) differenti a seconda dei distretti e segnalano criticità locali nella gestione delle concessioni idriche, specie in contesti di stress idrico; al tempo stesso, analisi sui flussi di “acqua virtuale” ricordano che larga parte dei consumi avviene in Paesi importatori con risorse ben più abbondanti. In breve: non esiste un unico numero buono per ogni avocado, ma un ventaglio di valori che dipende dal dove e come si produce.

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In Italia sta crescendo una piccola filiera nazionale (soprattutto in Sicilia e Calabria), sostenuta da progetti di tracciabilità e, più di recente, anche da accordi commerciali che rendono reperibile avocado “made in Sicily” nella GDO. Non è — e non sarà presto — la quota prevalente del mercato, ma offre un’opzione più trasparente per chi desidera usare l’ingrediente con maggiore consapevolezza.

Se il pesce è crudo, marinato o poco cotto, il Ministero della Salute raccomanda in ambito domestico il congelamento a –18 °C per almeno 96 ore (freezer a tre o più stelle). Per ristorazione e vendita si applica, fra le opzioni previste dalla normativa europea, l’abbattimento a –20 °C per almeno 24 ore come misura per devitalizzare le larve di Anisakis. Sono indicazioni semplici ma decisive, specie quando si prepara a casa una bowl ispirata al poke.

Il poke hawaiano resta un piatto di pesce condito — sale, alghe, ʻinamona, poi shoyu e sesamo — spesso venduto a peso nei grocery delle isole; la poke bowl globale è un’altra cosa: una ciotola completa pensata per personalizzazione e delivery. Entrambe le espressioni hanno cittadinanza, purché si sappia distinguere tra origine e reinterpretazione, e si scelgano ingredienti tracciabili e filiere attente all’ambiente. Così il fenomeno più “esplosivo” degli ultimi anni può convivere con il rispetto della tradizione che lo ha generato.

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Quello che i piatti non dicono
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