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28 Luglio 2025 12:04

Il “caso rifugi” sull’Appennino emiliano: 3 su 4 irregolari, carne e alimenti scaduti anche da 20 anni

Un controllo dei NAS rivela violazioni estese in rifugi e punti ristoro tra Emilia e Romagna. Ma dietro l’allarme sanitario si intravede qualcosa di più grande: un settore fragile, lasciato troppo spesso a sé stesso.

A cura di Francesca Fiore
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C’è qualcosa di profondamente stonato nell’immagine che arriva da alcuni rifugi dell’Appennino emiliano-romagnolo, dopo l’operazione condotta dal NAS di Bologna. Le montagne evocano libertà, aria pulita, silenzio, genuinità. I rifugi, per molti, sono più che punti ristoro: sono riparo, fiducia, calore umano.

Eppure, il quadro emerso è tutt’altro. Su 16 strutture ispezionate tra giugno e luglio, solo 4 sono risultate regolari. Le altre 12? Un campionario da incubo: carne di cinghiale conservata in un bagno, salumi scaduti da oltre 20 anni, gatti e cani nei locali cucina, muffe sulle pareti, attrezzature incrostate da residui vecchi di settimane. E poi conserve artigianali prive di pastorizzazione, laboratori abusivi in garage infestati dai topi, funghi e tartufi privi di tracciabilità.

I carabinieri del NAS hanno sequestrato 700 chili di alimenti pericolosi, sospeso quattro attività commerciali per gravi rischi igienico-sanitari, e staccato multe per circa 27.000 euro. Ma oltre ai numeri, resta un senso di frattura. Quello tra l’immaginario e la realtà.

Il “caso rifugi”: molto più di 12 sanzioni

L’intervento del NAS non è stato casuale. L’Appennino è una meta in crescita: con l’affermarsi del turismo lento, sempre più persone cercano rifugi, agriturismi e locande in quota. Dove non arrivano le autostrade, arriva l’escursionismo, spesso senza troppi controlli. Il sospetto, maturato nel tempo, è che la pressione economica su questi piccoli esercizi stesse spingendo qualcuno a prendere scorciatoie pericolose.

Le irregolarità sono emerse in rifugi di provincia – da Parma a Forlì, passando per Modena e Bologna – ma il pattern si ripete con inquietante costanza: conservazione scorretta, tracciabilità assente, alimenti scaduti o mal conservati, spazi di preparazione del cibo inadeguati. Molti gestori hanno agito nell’illegalità, altri nella semplice trascuratezza, altri ancora nella totale ignoranza delle norme di sicurezza alimentare. In nessun caso si è trattato di un episodio “folkloristico”. Qui si gioca con la salute pubblica.

Ma qui non è il singolo ristoratore che “ha sbagliato”. È una crisi più profonda: è il segnale che qualcosa, in questo settore, non funziona più. Possiamo chiamarlo a buon diritto “caso rifugi”, perché le condizioni trovate non sono isolate, né frutto del caso. Sono sintomo di un sistema che è spesso lasciato a sé stesso.

Tre rifugi su quattro, in un’area così vasta, non rispettano le minime condizioni di sicurezza alimentare? Significa che c’è una falla nei controlli, nella formazione, forse perfino nell’idea stessa di “ospitalità di montagna”. Chi gestisce queste strutture spesso lavora 12 mesi l’anno con margini risicati, facendo da cuoco, manutentore, albergatore e guida alpina allo stesso tempo. L’assenza di sostegno pubblico strutturale – formazione, audit regolari, strumenti per la tracciabilità – può facilmente aprire la porta all’improvvisazione.

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I rischi (e i danni) per tutti

Per il cittadino, il pericolo è concreto: botulismo da conserve non pastorizzate, intossicazioni da cibi scaduti, contaminazioni crociate. Ma c’è un altro tipo di danno, più sottile e forse più duraturo: la perdita di fiducia.

Quando si va in rifugio, si accetta un certo “margine di rusticità”: si sa che non è un ristorante stellato. Ma c’è un patto implicito: che ciò che viene servito sia sicuro, onesto, pulito. Che chi cucina lo faccia con rispetto per chi mangia. Quel patto, in molti casi, è stato spezzato.

E pois si rischia l'effetto domino: i turisti si allontanano, gli escursionisti si portano il panino da casa, le strutture oneste pagano per colpe altrui. Intanto le autorità sanitarie dovranno correre ai ripari, con ispezioni più frequenti e sanzioni più dure.

Il futuro dei rifugi: serve un cambio di passo

Ciò che serve ora non è solo repressione, ma una riforma culturale e logistica del sistema rifugio. I gestori devono essere accompagnati, non solo puniti. Servono della formazione obbligatoria e continua per chi opera nella somministrazione in quota, un sistema semplificato ma rigoroso per la tracciabilità dei prodotti, controlli regolari, ma anche incentivi per chi investe in sicurezza e qualità, linee guida nazionali per la gestione igienico-sanitaria dei rifugi montani.

E, soprattutto, una nuova consapevolezza: che anche un tagliere di formaggi a 1.500 metri ha bisogno delle stesse garanzie igieniche di un bistrot in centro città. Non perché la montagna debba diventare plastificata o industriale, ma perché la “genuinità” non è mai una scusa per la sciatteria.

Il “caso rifugi” potrebbe diventare un’opportunità, se affrontato con lucidità. Non per colpevolizzare un intero comparto, ma per modernizzarlo dove serve, proteggerlo dove rischia, valorizzarlo dove merita. Perché il rifugio non è solo un locale: è parte del paesaggio culturale italiano. E come tale, va rispettato.

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