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28 Ottobre 2025 11:00

Fagiolo del Purgatorio: il legume della Tuscia che sfiora il Paradiso

Nel cuore dell’Alta Tuscia, un piccolo fagiolo bianco lega agricoltura, devozione e cucina contemporanea. Dal pranzo quaresimale alle tavole gourmet, la redenzione passa per un filo d’olio e un piatto di magro.

A cura di Francesca Fiore
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C’è un legume minuto che non fa scena eppure ruba la scena: è bianco, regolare, con la buccia fine come un velo. Si chiama Fagiolo del Purgatorio di Gradoli e ha due anime: quella bucolica della Tuscia, fatta di colline vulcaniche e brezze dal lago, e quella conviviale di un paese che ogni Quaresima si ritrova attorno a una tavola lunga, lunghissima. La cucina lo ama perché è gentile e versatile; la comunità lo riconosce come un simbolo. Tra terra e rito, la sua storia è più gustosa di una scarpetta ben fatta.

Intorno a Gradoli, affacciata sul blu del lago di Bolsena, i suoli neri di origine vulcanica nutrono piante che danno semi teneri, mai farinosi, dal sapore pulito. Qui le coltivazioni sono ancora misurate: appezzamenti piccoli, gesti pazienti, niente scorciatoie. È l’ambiente a fare il lavoro fino in fondo: clima mite, ventilazione del lago, suolo sciolto e minerale. Il risultato è un fagiolo che cuoce senza capricci e regge sia la semplicità più disarmante sia la cucina d’autore.

Il pranzo che comincia di notte

La parola “Purgatorio” non è marketing, ma è qualcosa che ha a che fare con la memoria. A Gradoli, il Mercoledì delle Ceneri, la Fratellanza del Purgatorio organizza un pranzo comunitario che viene da molto lontano, dalla stagione in cui la carità si faceva con ciò che la campagna offriva. La giornata inizia prima dell’alba: si accendono grandi fuochi, si mettono a sobbollire paioli e pentoloni, si apparecchia per un paese intero. Il menu è sempre quello, una processione di sapori di lago e di terra: i fagioli in apertura, poi minestre e pesci del territorio, tutto rigorosamente di magro, con pane e vino che ognuno porta da casa. È un rito di comunità e solidarietà che ha attraversato i secoli senza perdere né senso né sapore.

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Piccolo ma tostissimo: come lo usano cuochi e ristoranti

A vederlo sembra quasi timido, e invece il Fagiolo del Purgatorio ha una personalità decisa, anche se non alza mai la voce. È piccolo, bianco, perfettamente ovale e con una buccia sottilissima che gli permette di cuocere in fretta, senza ammollo o quasi. In acqua sobbolle con calma, non si spacca, non fa schiuma, e quando è pronto mantiene la sua forma integra, offrendo però una consistenza cremosa che fa invidia a legumi ben più blasonati. Il sapore è delicato, con un fondo dolce e una leggera nota nocciolata che racconta la mineralità dei suoli vulcanici da cui nasce. È un fagiolo gentile, sì, ma con carattere: tiene la cottura, non si arrende al mestolo, e sa stare in piatti tanto rustici quanto eleganti.

La cucina tradizionale non lo nasconde: lo trovi spesso lessato e condito semplicemente con olio extravergine d’oliva, salvia o alloro e pepe. Ma si presta anche a interpretazioni più strutturate: una delle ricette tipiche della zona propone la “pasta mischiata con crema di fagioli del Purgatorio e cozze”, un piatto che unisce il legume locale a un ingrediente di lago, mescolando cultura contadina e suggestione marina. In alternativa, lo si serve in insalata tiepida con fiori di finocchio selvatico, ma diventa anche base per vellutate, contorno gentile per il pesce, crema d’appoggio per formaggi caprini della Tuscia.

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Forse è proprio questa doppia anima — contadina e raffinata — che lo ha reso un ingrediente sempre più amato anche dai cuochi. Nei ristoranti della Tuscia lo si trova in mille versioni: al Ristorante Il Purgatorio di Gradoli arriva tiepido, condito solo con olio extravergine locale e salvia croccante; all’Osteria Belvedere sul lago di Bolsena accompagna filetti di coregone e pane tostato; mentre lo chef Francesco Apreda, in un evento dedicato ai legumi laziali, ne ha esaltato la cremosità in una vellutata con erbe spontanee e olio alla menta romana. Anche la cucina pop non lo ignora: la food writer Federica Constantini, in un episodio de L’Italia a Morsi, lo ha definito “il fagiolo perfetto per chi ha poco tempo e ama i sapori puliti”.

In realtà, basta poco per capire perché è diventato un feticcio degli chef e un amore casalingo. Cuoce in meno di un’ora, assorbe alla perfezione aromi e condimenti, e ha una digeribilità sorprendente grazie alla sua buccia sottile. È il legume che ti risolve la cena, ma anche quello che può finire, senza sfigurare, in un menu degustazione.

Un piccolo presidio da proteggere

Questo fagiolo non è solo buono: è identità. È riconosciuto come prodotto tradizionale del Lazio e vive dentro l’Arca del Gusto di Slow Food, che raccoglie le varietà da tutelare perché legate a territori e saperi a rischio di omologazione. La sua filiera è corta, fatta di agricoltori che seminano e raccolgono ancora a mano, di selezioni pazienti, di stagioni rispettate. Ogni pacchetto acquistato è una piccola scelta politica: a favore di chi coltiva biodiversità e contro l’idea che i legumi siano tutti uguali.

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Quello che i piatti non dicono
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