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11 Agosto 2025 18:00

Dalle neviere arabe alla colazione siciliana: la lunga vita della granita, nata dall’idillio tra Oriente e Occidente

Una storia che affonda le radici nella dominazione araba e passa per i monasteri, con usanze che rivivono intatte ogni estate in Sicilia.

A cura di Monica Face
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Quando l’estate italiana porta con sé giornate torride, spiagge assolate e pomeriggi infuocati, cresce il desiderio di qualcosa di fresco per ritrovare sollievo. Gelati, sorbetti e dessert ghiacciati sono tra le scelte più gettonate, ma tra tutte spicca la granita siciliana, vera regina della stagione.

Questo dolce è il frutto di un incontro tra Oriente e Occidente, tra popoli e culture che in Sicilia hanno trovato un equilibrio straordinario. Oggi questa specialità si gusta soprattutto a colazione, accompagnata dalla tipica brioche, nei gusti più classici come mandorla, pistacchio, caffè, limone o fragola. Ma da dove arriva questa meraviglia ghiacciata? Scopriamo insieme la storia e le trasformazioni che la granita siciliana ha visto nel corso del tempo.

Le origini millenarie e il rito della neviere

Prima che la granita diventasse simbolo dell’estate siciliana, la gestione e la conservazione della neve erano fondamentali per garantire refrigerio nei periodi più caldi. Questa cultura affonda radici antichissime: già Sumeri e Greci svilupparono primitive ghiacciaie per mantenere cibi e bevande al fresco, mentre i Romani perfezionarono queste tecniche, diffondendole in tutto il Mediterraneo. In Sicilia, queste conoscenze si tramandarono nei secoli, alimentando una rete di neviere tra le più grandi e antiche d’Europa, come quelle delle Madonie o del versante etneo.

La storia della granita vera e propria inizia nel IX secolo, quando gli Arabi portarono sull’isola lo sharbat, una bevanda ghiacciata aromatizzata con petali di fiori, spezie e succhi di frutta. I nobili siciliani accolsero questa novità con entusiasmo, affidandone la preparazione ai nivaroli, esperti raccoglitori di neve che salivano sull’Etna, sui Nebrodi, sui Peloritani e sugli Iblei.

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Questi nivaroli non si limitavano a raccogliere la neve, ma la conservavano in fosse coibentate con cenere vulcanica o in grotte naturali, per poi trasportarla in estate fino alle città costiere, protetta da felci, paglia e sacchi di juta. I blocchi venivano stivati nelle case neviere, ambienti scavati nella roccia o nei sotterranei delle residenze aristocratiche, così da garantirne la disponibilità anche nei mesi più caldi. Nei principali vescovati medievali, come Palermo, Catania e Monreale, la neve era un bene prezioso e simbolo di prestigio.

Alla fine del pasto, la neve veniva grattata e insaporita con sciroppi di frutta o essenze floreali, trasformandosi nella cosiddetta rattata – "grattata" in dialetto – considerata l’antenata della granita. Nei secoli successivi, il rituale si diffuse anche nei conventi, dove i monaci preparavano sorbetti aromatizzati alla menta, alla rosa o alla lavanda, ritenuti rimedi terapeutici per abbassare la febbre e purificare il corpo dopo i pasti. Queste preparazioni venivano offerte a pellegrini, ospiti delle abbazie e persino alle corti normanne, facendo della neve un ingrediente prezioso e salutare.

L’evoluzione tecnica: dal pozzetto alla macchina elettrica

Fino al Cinquecento, la granita era poco più di una semplice grattata di ghiaccio aromatizzato. La svolta arrivò con il cosiddetto pozzetto, un tino di legno con un secchiello di zinco al centro, azionato da una manovella. In questo periodo, la neve iniziò a essere usata come refrigerante: mescolata con sale marino e stipata tra strati di juta pressata, manteneva la temperatura costante necessaria a congelare la miscela dolce all’interno.

Il movimento regolare della manovella, spesso affidato a giovani garzoni nei laboratori artigiani, faceva ruotare le palette interne impedendo la formazione di cristalli di ghiaccio troppo grandi. Si otteneva così una consistenza soffice e vellutata, diversa dalla semplice rattata del passato.

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Il pozzetto restò in uso per secoli, simbolo di un mestiere tramandato di generazione in generazione. Solo nel Novecento arrivò la gelatiera meccanica: nel 1961, l’ingegnere napoletano Salvatore Cortese brevettò il primo granitore verticale, capace di mostrare il prodotto in vetrina e garantirne una lavorazione continua. In realtà, in Sicilia, molti bar di paese usano ancora il metodo manuale.

Caratteristiche, gusti e rivalità

Oggi la granita è un perfetto equilibrio tra dolcezza e freschezza: zucchero, acqua e succo o estratto di frutta si combinano in dosi calibrate (oggi sotto il 20% di zucchero, rispetto al 30–35% del passato) e vengono raffreddati gradualmente per evitare la formazione di cristalli troppo grossi.

Il gusto originario, nato dalla necessità di conservare la neve con acido citrico, fu il limone: semplice, agrumato e perfettamente in linea con l’identità mediterranea dell’isola. Nel Regno delle Due Sicilie erano diffuse anche varianti alla mandorla, gelsi e gelsomino. Con l’avvento del granitore moderno, la gamma si è ampliata: menta, fragola, caffè, pistacchio di Bronte e cocco sono oggi tra i più richiesti.

Il risultato varia da città a città: a Messina, la granita mantiene una struttura più granulosa e un sapore più dolce, spesso arricchita da panna fresca servita con il classico cucchiaio di legno. A Catania, invece, la lavorazione continua dona una consistenza quasi cremosa e un gusto più fresco e lievemente aspro, perfetto per la frutta o la mandorla, solitamente senza panna.

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Queste differenze alimentano rivalità storiche: Messina ha ottenuto un marchio comunale per la sua granita "a mano", mentre Catania promuove la candidatura europea per la granita di Acireale e ospita il festival Nivarata, dedicato ai nivaroli. A Ragusa e Siracusa si contendono la paternità della granita alla mandorla — tra la versione con mandorla tostata e quella con mandorla grezza — mentre a Trapani e San Vito Lo Capo si gusta la scursunera, profumata al gelsomino. Persino in Calabria, nel borgo di Favazzina di Scilla, si prepara una granita simile a quella messinese, ma con gusti locali come fico e fico d’India.

La colazione siciliana con la brioche

Un tempo la granita si accompagnava al pane fresco, semplice e croccante: ma nei primi decenni del Novecento venne sostituito dalla brioche col tuppo, soffice e leggermente dolce, ideale per raccogliere la granita senza disfarsi. Questo lievitato, con la tipica pallina superiore che ricorda un antico chignon femminile, è oggi parte integrante di un rituale che i siciliani considerano inscindibile dalla colazione estiva.

Al mattino, i bar si riempiono di famiglie e turisti desiderosi di questo abbinamento: il contrasto tra la morbidezza calda della brioche e il freddo della granita regala un momento di condivisione che custodisce, ancora oggi, secoli di storia e orgoglio isolano.

Grattachecca e sorbetto: cugine lontane

Spesso confusa con il sorbetto o con la grattachecca romana, la granita siciliana ha una storia e una tecnica tutte sue. La grattachecca nasce come street food romano, ottenuta raschiando blocchi di ghiaccio con una pialla e aggiungendo sciroppi o spremute, senza alcuna mantecatura.

Il sorbetto, invece, può contenere vino, liquori o albume d’uovo — ingredienti assenti nella ricetta tradizionale siciliana. La granita, fedele al suo retaggio arabo, unisce acqua, zucchero e frutta, montati e congelati con controllo termico e movimento costante.

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Nonostante la diffusione dei granitori industriali, in molte botteghe siciliane la granita continua a essere preparata artigianalmente, secondo gesti e ricette tramandati da generazioni. Questa cura artigianale resta un orgoglio locale, capace di resistere alle mode e di mantenere intatto il gusto autentico di un rito antico. Oggi la granita è uno dei simboli più amati dell’estate italiana, capace di raccontare — con un solo cucchiaio — secoli di storia, ingegno e sapori mediterranei.

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