Il menu non è alla carta, ma al buio, con lo chef che davanti agli occhi di pochi commensali seduti al bancone costruisce un percorso con le materie prime del giorno. Si abbattono i muri tra sala e cucina e si vive un'esperienza emozionante.
Quando si va al ristorante solitamente lo chef c’è, ovviamente, ma non si vede. Lavora dietro le quinte e, nella maggior parte dei casi, non compare mai in sala. L’omakase regala un’esperienza completamente diversa, instaurando un legame diretto tra chi cucina e chi mangia, con le distanze che si annullano. Inoltre, la relazione che si crea è di fiducia allo stato puro: non è un caso, infatti, che il termine significhi proprio “mi affido a te” o “lascio fare a te”, con un menu che si costruisce su misura praticamente al momento. L’ispirazione arriva da qualche desiderio iniziale, dalla stagionalità degli ingredienti e dalla fantasia dello chef. Se l’omakase è diventato sinonimo di autenticità ed eccellenza della cucina giapponese, un motivo c’è. Andiamo alla sua scoperta.
Il termine "omakase" deriva dal verbo giapponese makaseru, che significa "lasciare fare" o "affidarsi". Un approccio che trova le sue origini nella cultura nipponica che ha grande rispetto per il saper fare artigianale. Durante un pasto omakase il cliente assapora pezzi unici creati appositamente per lui, dove lo chef ha carta bianca e decide cosa presentare senza avere un menu standardizzato, ma basandosi sulle materie prima di giornata.
La peculiarità di questa esperienza, quindi, è quella di essere unica, con un percorso culinario al buio che non è più ripetibile. Si tratta di un concept che in Giappone è considerato tradizionale e che vede protagonista originario il sushi – anche se la tipologia di pietanze si sono via via allargate, tra zuppette, brodi, insalatine di alghe, cibi scottati o grigliati – partendo da proposte con sapori più delicati fino ad arrivare a quelli più intensi, con una selezione che può andare dai 10 ai 20 piattini, tipo degustazione, dagli assaggi di benvenuto al dessert. Sotto gli occhi del cliente, lo chef taglia il pesce, cucina e assembla: il risultato è il totale abbattimento dei muri che separano la sala e la cucina. I locali omakase sono ambienti intimi, dove non ci si siede al tavolo, ma al bancone, condividendo il pranzo o la cena in un gruppo ristretto di avventori, che non superano la decina.
Partecipare a un omakase, come si può immaginare, significa godere di un vero e proprio spettacolo culinario tipo chef’s table: uno show cooking dove le regole le decide il sushi master, prendendosi cura del cliente. Non sorprende, quindi, che si tratti di un modo di andare al ristorante che si rivela di fascia medio-alta, soprattutto al di fuori del Giappone, e quando alla guida ci sono nomi di prestigio che presentano creazioni estemporanee e signature dish. Si parla o no con lo chef? Dipende. Nel Sol Levante, la discrezione è un dettaglio importante: di solito non si disturba, con il rischio di interromperlo o distrarlo. Fuori dai confini, con gli omakase aperti in tutto il mondo, Italia compresa, c’è chi lo ha provato descrivendolo come un “dialogo silenzioso”, con lo chef che sono alla fine del servizio, tra una tazza di tè matcha e un bicchiere di grappe e distillati, si è lasciato andare a conversazioni e chi ha interagito maggiormente, con qualche curiosità tolta in diretta durante il pasto. Insomma, a “tenere il coltello dalla parte del manico”, è sempre lo chef.