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5 Novembre 2025 11:00

Cosa succede al cibo “brutto”: dove vanno a finire i prodotti con difetti estetici

Sono soprattutto i prodotti ortofrutticoli a dover sottostare a norme che ne stabiliscono calibro, dimensioni, aspetto e colore per poter essere venduti, con il rischio di lasciare sui campi frutta e verdura perfettamente commestibile solo perché non rientra in specifici canoni "di bellezza".

A cura di Federica Palladini
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Nella contraddizione di una società contemporanea che da una parte condanna il body shaming e dall’altra sembra non poter fare a meno dei filtri su Instagram, anche il mondo del food è coinvolto in una simile contraddizione di immagine, per cui il cibo che viene proposto al consumatore e lo attira maggiormente è perfetto e privo di difetti, ma allo stesso tempo si è capito che è necessario combattere lo spreco alimentare per il bene non solo delle persone, ma anche dell’ambiente. La frutta e la verdura con difetti estetici, infatti, sono da più di un decennio al centro di un vero e proprio stallo, tra normative che stabiliscono standard di commerciabilità in base al calibro, dimensioni e aspetto della buccia e la consapevolezza che non ci si può più permettere di buttare via una carota solo perché è bitorzoluta. In che senso? Forse non tutti sanno che se un prodotto agricolo non collima con standard estetici previsti dal mercato, il più delle volte non viene neppure raccolto, ma lasciato a marcire nei campi.

Che cos’è il cibo “brutto”?

Come ci spiega Federica Ferrario, responsabile campagne dell’associazione Terra!, che dal 2008 si occupa di ambiente, agricoltura sostenibile e di modelli di sviluppo rispettosi degli ecosistemi, “Ultimamente si è iniziato molto a parlare di sprechi, ma non ancora di perdite”. Cosa significa? Come ben specificato nel rapporto Siamo alla frutta, presentato nel 2021 dall’associazione, gli esperti distinguono tra food losses che si verificano durante le fasi produttive e food waste, che avviene durante la trasformazione, la distribuzione e il consumo (tanto che bisogna tenere sempre alta la soglia sugli sprechi domestici con pratiche più virtuose possibili). “Con i cambiamenti climatici e i fenomeni estremi che diventano sempre più forti e frequenti ormai è anacronistico pensare di poter trovare solo una bella mela, una pera simmetrica, un pomodoro meraviglioso o un’arancia enorme: così non si fa male solo il consumatore, ma anche i produttori e il sistema generale”.

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Ma chi è che decide quali sono i canoni di bellezza della frutta e della verdura che si vendono in particolare al supermercato, ovvero nella grande distribuzione? Per quanto riguarda l’Italia “ci sono delle normative che stabiliscono degli standard di commerciabilità: il più immediato è Regolamento Delegato (UE) 2023/2429 della Commissione Europea, entrato in vigore a gennaio 2025 e che definisce dimensioni, colore e aspetto di una serie di prodotti ortofrutticoli (tra cui mele, pere, kiwi, lattuga…) dividendole in diverse categorie”. Che sono le seguenti:

  • Extra: praticamente senza difetti, con una particolare cura anche nella confezione
  • Prima categoria: quella che appare più di frequente sui banchi di vendita, con piccoli difetti di forma, dimensione e lievi lesioni.
  • Seconda categoria: presentano imperfezioni generali, con qualche segno sulla buccia. A livello di qualità nutrizionali non differiscono dalle precedenti, ma sono meno considerate.

E poi c’è tutto il cosiddetto fuori standard: “Sostanzialmente è ciò che non rientra nei parametri estetici imposti per legge” continua Ferrario e che “il produttore o ha buoni contatti con l’industria della trasformazione, riuscendo a fare un prezzo conveniente (tipo per realizzare succhi di frutta), oppure prova a vendere direttamente al consumatore finale senza intermediari come nei mercati, ma il più delle volte si tratta di quantità così irrisorie rispetto al totale non conforme, che questa frutta e questa verdura si decide di non raccoglierla”. Una standardizzazione che idealmente avrebbe dovuto aiutare tutta la filiera, dando origine ad alimenti di alta qualità, ma che nel corso del tempo ha finito per escludere prodotti altrettanto commestibili, sani e nutrienti. “Quello che si crea è un vero e proprio paradosso, perché magari una pera bruttarella non viene scelta, ma si opta per un’altra proveniente da oltreoceano, con danni a livello climatico, basta pensare al solo trasporto, con la beffa di non sostenere neppure la nostra agricoltura e il nostro territorio”.

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Cosa si fa per recuperare e dare valore al cibo brutto

In Italia, in questo momento, tra le associazioni più attive a riguardo possiamo citare Terra! che ha lanciato da maggio 2025 la petizione “Oltre la buccia” per dare più spazio e visibilità nella GDO – che costituisce la fetta più grande di mercato – ai prodotti di seconda categoria, in quanto come scritto nel testo “continuare a escludere i prodotti fuori calibro e limitare l’accessibilità di prodotti di categoria II, significa aumentare le perdite e gli scarti, mettere in crisi intere filiere locali e spingere verso modelli agricoli sempre più intensivi e ad alto impatto ambientale”. L’altra realtà è Recup, associazione operativa a Milano (dal 2016) e a Roma (dal 2021) che ha come obiettivo dichiarato quello di recuperare e distribuire gratuitamente il cibo in esubero escluso perché non considerato abbastanza bello (oltre alle eccedenze non utilizzate causate per mancanza di celle frigorifere, ricordiamo che si parla di ortaggi, quindi di prodotti altamente deperibili), in un’ottica anche di inclusione sociale.

A livello internazionale, un movimento nato in favore del cibo brutto, ma buono, che si può racchiudere nella definizione “capello” Ugly Food Movement, si fa partire nella Francia del 2014, quando compare Les Gueules Cassées, che ha come simbolo una mela dalla forma irregolare con un sorriso composto da un solo dente nero: si tratta dell’idea di un imprenditore ortofrutticolo di unire altri colleghi in un collettivo riconoscibile dal bollino con la mela rossa sdentata da porre su quei vegetali considerati scarti di produzione perfettamente edibili, ma non accettati dalla GDO. La storia del nome vale la pena di essere raccontata: gueules cassées (facce rotte) è il termine coniato dal colonnello e politico francese Yves Picot (1862-1938) in riferimento a quei reduci della Prima Guerra Mondiale che erano rimasti brutalmente sfigurati in battaglia, e che lottarono a lungo per riacquistare un posto nella società nonostante le gravi menomazioni. Insomma, un parallelismo semplice da capire con il cibo brutto, che non deve essere scartato, ma riabilitato.

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Quello che i piatti non dicono
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