
In un’epoca in cui siamo abituati a vedere filiere perfette, visivamente rassicuranti, marchi brillanti che promettono "benessere animale" e packaging che sembrano più scenografia che realtà, la vicenda dell’azienda agricola La Pellegrina emerge come un vero e proprio spartiacque. L’immagine quotidiana che arriva dal banco del supermercato – suini allevati in ambienti controllati, carne proveniente da strutture moderne e sicure – subisce un brusco contraccolpo quando arrivano le foto, i video e i racconti che mostrano cosa succede dietro le quinte.
È in questo contesto che l’allevamento di maiali di Roncoferraro, in provincia di Mantova, gestito dalla La Pellegrina – azienda parte del potente gruppo industriale del settore zootecnico – diventa l’emblema di un sistema in cui “massimizzare la produzione al minor costo” sembra essere diventata la priorità, mentre il benessere degli animali, l’igiene, la trasparenza rimangono promesse sui documenti.
Quando un semplice esposto, corredato di video e foto, entra nelle mani delle autorità competenti, allora la facciata perfetta si incrina: animali feriti, carcasse abbandonate, ratti che trovano spazio nei capannoni. Ed è proprio questo che la Greenpeace Italia rivela tramite l’inchiesta “Dietro le sbarre”.
Ma non si tratta solo di un episodio grave: la particolarità sta nel fatto che La Pellegrina non è una piccola azienda che lavora nell’ombra, bensì uno dei giganti del settore, tra le cinque che fatturano di più in Italia nel comparto degli allevamenti intensivi. E quando è uno di questi colossi a presentare criticità così evidenti, la questione diventa molto più che un “caso locale”: diventa una riflessione sul modello industriale, sui consumi, sull’ambiente e sulle scelte cui ciascuno di noi contribuisce quando acquista un pezzo di carne.
Un gigante economico, non un’eccezione marginale
Prima di arrivare alle immagini choc diffuse da Greenpeace, vale la pena capire chi è l'azienda Società Agricola La Pellegrina S.p.A. Secondo i dati di bilancio disponibili pubblicamente, La Pellegrina ha registrato nel 2023 un fatturato di circa 1,65 miliardi di euro, con utili vicini ai 30 milioni.
Sulla base di un’indagine condotta da Greenpeace Italia insieme a Openpolis, che ha incrociato ricavi e impatti ambientali delle grandi imprese zootecniche, La Pellegrina risulta essere una delle prime cinque aziende zootecniche italiane per ricavi e al secondo posto tra le aziende del settore, subito dopo la cooperativa Tre Valli, anch’essa parte del Gruppo Veronesi. Il Gruppo Veronesi è una multinazionale italiana che controlla diversi marchi alimentari noti, tra cui AIA, Negroni e Wudy.
La Pellegrina è una delle sue proprietà e opera all'interno della filiera produttiva del gruppo, come confermato dalla privacy policy e dai comunicati di associazioni come Greenpeace. In altre parole: non stiamo parlando di un caso isolato o marginale, ma di uno dei principali beneficiari del “business miliardario” degli allevamenti intensivi.

L’inchiesta “Dietro le sbarre”: cosa ha documentato Greenpeace
La scintilla che porta La Pellegrina sulle prime pagine scocca con la pubblicazione dell’inchiesta “Dietro le sbarre”, realizzata da Greenpeace Italia nell’allevamento di maiali di Roncoferraro. Il materiale – video e foto – arriva da una fonte anonima, viene verificato da Greenpeace e poi raccolto in un report pubblico. Secondo quanto descrive l’organizzazione ambientalista, all’interno dei capannoni vengono riscontrati:
- ratti presenti “in tutta la struttura”, anche a diretto contatto con i maiali e nelle sezioni maternità;
- aree sporche, invase dagli insetti, con evidenti problemi di igiene e biosicurezza;
- carcasse di suinetti abbandonate, alcune delle quali morsicate o addirittura mangiate dai ratti;
- animali feriti, con lesioni non curate, prolassi e condizioni compatibili con forte stress e sovraffollamento.
Dal report al sequestro: cosa hanno fatto le autorità
L’inchiesta non è rimasta senza conseguenze. Dopo la pubblicazione del report e l’esposto di Greenpeace sono intervenuti i Carabinieri del NAS (Nucleo Anti Sofisticazioni e Sanità) e l’ATS Val Padana (Azienda di Tutela della Salute competente sul territorio). Secondo le ricostruzioni, tra cui quelle riportate da Il Salvagente e Fanpage, l’ispezione delle autorità ha comportato una multa da circa 10.000 euro al legale rappresentante della società, nonché al sequestro dell’allevamento di Roncoferraro e il blocco della movimentazione di tutti i suini presenti nella struttura, per garantire il rispetto delle norme igienico-sanitarie e di sicurezza.
Greenpeace, commentando questi sviluppi, rivendica il senso dell’operazione: senza le immagini arrivate da dentro l’allevamento e senza l’esposto, quel che accadeva “dietro le sbarre” delle gabbie sarebbe probabilmente rimasto invisibile al consumatore medio.
Un colosso che parla di “benessere animale”
La parte più dolorosa di questa storia, per molti, sta nella distanza tra la realtà documentata e le promesse ufficiali. Nei propri documenti di sostenibilità, il Gruppo Veronesi descrive il benessere animale come un “valore primario” e dichiara di voler garantire agli animali allevati “libertà da dolore, lesioni o malattie” grazie a diagnosi tempestive e trattamenti adeguati.
Proprio a partire da queste dichiarazioni, Greenpeace e altri osservatori parlano di un benessere animale “solo su carta”: la distanza tra le policy aziendali e quanto mostrato nei video appare, secondo loro, difficilmente conciliabile.
Va ricordato però che le accuse mosse da Greenpeace – per quanto basate su materiali verificati e ora oggetto di intervento delle autorità – riguardano specifiche condizioni riscontrate in uno stabilimento e saranno oggetto di eventuali ulteriori accertamenti giudiziari. Ma la vicenda, di per sé, apre una questione più ampia: cosa succede davvero negli allevamenti intensivi che riforniscono i grandi marchi che troviamo ogni giorno al supermercato?

Le 5 aziende che guadagnano di più dagli allevamenti intensivi
La vicenda de La Pellegrina non arriva in un vuoto. Pochi giorni prima, Greenpeace aveva pubblicato un’indagine sulle 5 aziende che guadagnano di più dagli allevamenti intensivi in Italia, realizzata insieme a Openpolis. Da questa analisi emerge in maniera evidente come gli allevamenti intensivi rappresentino un business miliardario concentrato in poche mani;
La Pellegrina, con ricavi superiori a 1,6 miliardi di euro, è tra le prime cinque aziende zootecniche italiane per fatturato e occupa il secondo posto tra quelle con ricavi annui miliardari. Si tratta di aziende che in alcuni casi sono state anche responsabili di ingenti emissioni inquinanti o che ricevono importanti fondi pubblici, ad esempio dalla Politica Agricola Comune (PAC), di cui La Pellegrina risulta tra i maggiori beneficiari in Italia.
È su questo intreccio – profitti altissimi, impatti ambientali rilevanti, condizioni di allevamento contestate – che Greenpeace costruisce la propria campagna: fermare l’espansione degli allevamenti intensivi e convertire quelli esistenti verso modelli ritenuti più sostenibili per clima, salute e diritti degli animali.
Una storia triste, ma non isolata
Definire quella de La Pellegrina una “storia triste” non è solo una scelta narrativa: è il modo in cui molti osservatori leggono l’insieme dei fatti. Ma soprattutto è una storia che, come ricordano Greenpeace e molte testate che hanno seguito il caso, non è un’eccezione, bensì il sintomo di un “sistema malato”: quello degli allevamenti intensivi, basato sulla massimizzazione del numero di animali allevati nello spazio e nel tempo, spesso a spese dell’ambiente, della salute pubblica e degli stessi animali.
E adesso? Dopo il sequestro, la multa e l’esplosione mediatica, la storia dell’allevamento La Pellegrina è tutt’altro che chiusa: seguiranno indagini, eventuali procedimenti, forse investimenti per mettere a norma gli impianti o scelte industriali più radicali.
Resta però un dato di fatto: se un gigante da oltre 1,6 miliardi di fatturato, ai vertici delle aziende zootecniche italiane, finisce sotto sequestro per condizioni igienico-sanitarie ritenute gravemente carenti, allora la domanda non può più essere solo “che cosa è successo in quell’allevamento”, ma che cosa sia successo al modello stesso di produzione della carne in Italia.