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11 Settembre 2020 11:00

Cibofobia: cos’è, come si manifesta e come si supera la paura del cibo

Cos'è la cibofobia o fobia alimentare, in che forme si manifesta e quali sono le cause scatenanti: rispondiamo a queste e ad altre domande avvalendoci del prezioso contributo della dottoressa Silvia Della Morte, psicologa, psicoterapeuta e istruttrice mindfulness. Che ci spiega anche quali strumenti abbiamo a nostra disposizione per affrontarla e risolverla.

A cura di Emanuela Bianconi
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C'è chi ha paura di deglutire un determinato alimento solido, chi rifiuta cibi nuovi e sconosciuti o chi ancora ne esclude alcuni in particolare, mangiando solo quelli di una certa tipologia, consistenza o colore. Parliamo di cibofobia o fobia alimentare, ovvero quella paura irrazionale e incontrollabile legata al cibo e alla sua ingestione. Da non confondere con i disturbi alimentari quali anoressia, bulimia e ortoressia nervosa, la cibofobia – legata all'assunzione di alcuni alimenti specifici – può ripercuotersi negativamente sul benessere fisico e sulla vita sociale della persona che ne soffre e, per tali ragioni, non va presa alla leggera e sottovalutata. Vediamo nel dettaglio, dunque, cos'è la cibofobia, come si manifesta e quali strumenti abbiamo a nostra disposizione per affrontarla e risolverla.

La cibofobia: quando gli alimenti ci fanno paura

Cos'è la cibofobia? Per rispondere a questa domanda ci siamo avvalsi del contributo della dottoressa Silvia Della Morte, psicologa, psicoterapeuta e istruttrice mindfulness, iscritta all'Ordine degli Psicologi del Lazio. "Per cibofobia intendiamo una paura irrazionale, direi smisurata, per alcuni cibi che vengono quindi evitati e talvolta, anche il solo pensiero di questi, può portare a una vera e propria sintomatologia ansiosa".

Ma come si manifesta? "L'individuo ha una selettività esclusiva rispetto ad alcuni cibi ed è impossibilitato a digerire quel cibo che è l'oggetto fobico; anche solo il suo pensiero sollecita, stimola nell'individuo una sintomatologia di tipo ansioso che riscontriamo in tutti i tipi di fobie: dai tremori agli attacchi di panico veri e propri. Questo va chiaramente a produrre una qualità di vita molto scadente".

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Quali sono le fobie alimentari più comuni

Quali sono le fobie alimentari più frequenti? "Ce ne sono tante – prosegue la dottoressa Della Morte – alcune anche molto bizzarre: si va dalla fobia per la banana a quella per l'aglio, da quella per l'alcol a quella per i pomodori (o per i loro semi); o ancora per le verdure, per la frutta o per il burro di arachidi, per la paura che questo si possa poggiare sul palato e far soffocare la persona". La fobia può essere relativa non soltanto all'oggetto fobico in sé, ma anche al suo colore o alla sua consistenza. Una delle fobie più note è probabilmente la fagofobia (dal greco paura di mangiare): il soggetto non riesce né a deglutire né a ingerire cibi solidi; nei casi più lievi l'individuo che soffre di questa patologia finisce per nutrirsi solo di alimenti morbidi e liquidi, ma nelle situazioni più gravi e invalidanti può provocare pericolose carenze nutrizionali e dunque danni alla salute.

Un'altra paura, altrettanto conosciuta e molto diffusa, è la neofobia, ovvero il rifiuto nei confronti di cibi nuovi o sconosciuti. Si tratta di una caratteristica insita nell'essere umano, un atteggiamento naturale volto alla sua salvaguardia e protezione, che riscontriamo soprattutto in età infantile (tra i 2 e i 5 anni). In questa fase si tratta di un comportamento difensivo transitorio e funzionale, che scompare spontaneamente durante il proseguimento dell'infanzia anche grazie all'esempio della famiglia e a una corretta educazione alimentare; nel caso in cui si conservino delle tendenze neofobiche anche in età adulta, invece, si rischia di privare il corpo di sostanze preziose e dunque d'incorrere in gravi deficit calorici, proteici o vitaminici a seconda di quale sia l'oggetto fobico; e di veder minata o compromessa la propria rete di relazioni interpersonali.

Quando si escludono dalla dieta determinati cibi o si mangia esclusivamente quelli di un certo tipo, consistenza o colore (per esempio solo i cibi bianchi come pasta, riso e pane), possiamo parlare di Arfid (Avoidant restrictive food intake disorder), un disturbo del comportamento alimentare che colpisce soprattutto i soggetti di sesso maschile. Si tratta di una sorta di ipocondria e chi ne è affetto è convinto che un determinato alimento, una volta ingerito, possa causargli un malessere (anche senza una motivazione reale).

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La terapia giusta

È possibile uscire da una problematica di questo tipo? La risposta è sì. Quando la qualità di vita e delle sue relazioni interpersonali viene compromessa, è molto importante che la persona cibofobica venga accompagnata in un percorso terapeutico volto a ridurre il suo livello di stress e di ansia. "Soprattutto laddove ci sia stato un trauma", ci spiega la psicoterapeuta. Se così non fosse, andrà capito, sempre attraverso la terapia, "che cosa è stato proiettato in quell'oggetto che assume appunto la colorazione della fobia".

Fondamentale, dunque, è rivolgersi e affidarsi a un professionista che sappia indirizzare il paziente verso il percorso terapeutico più giusto. "Di solito – prosegue la dottoressa – in queste terapie di desensibilizzazione, a stampo cognitivo comportamentale, si cerca di accompagnare il soggetto a comprendere i vari significati e a gestire e controllare le ruminazioni che avvengono a livello cognitivo. Inoltre, anche una buona consapevolezza e quindi una rieducazione attraverso lo stare a contatto con le cose in modo mindfulness, e quindi in modo consapevole, può permettere al soggetto di entrare in relazione con ciò che è, con ciò che lui vede e con ciò che lui proietta sull'oggetto fobico, e quindi aderire quanto più alla realtà". Qualora, invece, dovesse presentarsi una sintomatologia ansiosa importante, si può fare affidamento anche alla farmacoterapia, finalizzata ad abbassare quei livelli di tensione "che spesso possono essere invalidanti per il soggetto".

La persona che ha questo tipo di "fatica" ha imparato benissimo a conviverci ed è sistemata in una zona di comfort dove, appunto, attraverso l'evitamento e la selezione di alcune cose, in qualche modo "si racconta di vivere bene". L'essere umano è organizzato per avere paura, una paura finalizzata alla sua protezione e dunque sopravvivenza: nel momento in cui la gestione di questa paura compromette la possibilità di fare esperienze nuove, è indispensabile lavorarci. "Per uscirne sarebbe interessante andare a capire cosa c'è dentro questa fobia: il cibo può essere un oggetto selezionato dove viene proiettato sopra qualcosa di molto più grande, qualcosa che la persona non riesce a esplorare in modo diverso".

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La mindfulness eating

Prestare attenzione al momento presente, con intenzione e in modo non giudicante. Questa è la definizione che Jon Kabat-Zinn, medico statunitense e pioniere di questo approccio, ha dato della mindfulness. Ma qual è la correlazione tra questa e la cibofobia? "Come istruttrice mindfulness – ci spiega la dottoressa Della Morte – ritengo che un protocollo Mbsr (Mindfulness based stress reduction) sia importante per una persona che presenti questo tipo di fobia; il protocollo mira proprio a rendere le persone consapevoli di varie assi quali quello cognitivo, quindi l'asse del pensiero, essere consapevoli del panorama delle sensazioni, ma anche del panorama delle emozioni. Una persona che vive una situazione di fobia, cioè di una paura incontrollata, è molto importante che possa, invece, fare campo base nel momento presente e, attraverso una rieducazione nel momento presente, quale l'Mbsr fa, possa ridurre i livelli di stress e imparare a conoscere e osservare, con un certo distacco e quindi con maggiore controllo, tutto quello che sta capitando nel suo panorama mentale, sensoriale ed emotivo".

Riprendiamo contatto con i nostri sensi, impariamo a scegliere, cucinare e mangiare in maniera consapevole. Selezioniamo gli ingredienti con attenzione e trattiamoli nella maniera più consona; gustiamo il cibo in maniera lenta, riducendo al minimo le distrazioni esterne e creando un ambiente rilassante e confortevole, ascoltiamo i segnali del nostro corpo, che ci dice quando è affamato e quando è sazio, e lasciamo che la pietanza che stiamo assaporando ci conquisti con i suoi colori, consistenze, profumi e sapori.

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Quello che i piatti non dicono
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