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9 Ottobre 2025 12:56

“Tre ciotole”: quando il cibo racconta la crisi e svela la fragilità dei legami

Un film che trasforma la fame e l'atto del nutrirsi in linguaggio emotivo: con Tre ciotole, Isabel Coixet porta sullo schermo il mondo intimo e simbolico di Michela Murgia, raccontando come il cibo possa diventare specchio di perdita, cura e consapevolezza.

A cura di Francesca Fiore
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C’è un momento, in Tre ciotole, in cui il silenzio pesa: Marta (Alba Rohrwacher) siede davanti a un piatto, ma non tocca il cibo; davanti a lei, c'è Antonio (Elio Germano), chef e compagno, che osserva impotente. Lui cucina per mestiere e per amore, lei, invece, ha smesso di avere fame. Da qui parte il film di Isabel Coixet, tratto dall’omonimo libro di Michela Murgia, che dal 9 ottobre 2025 è arrivato nelle sale italiane.

Il romanzo di Murgia, pubblicato nel 2023, era una raccolta di racconti legati dal filo della crisi — personale, politica, esistenziale — in cui il cibo assumeva un valore simbolico: le tre ciotole come misura del nutrirsi, della cura e del limite. Coixet, regista spagnola da sempre attenta ai temi dell’intimità e della fragilità (da La vita segreta delle parole a La mia vita senza me), sceglie di trasformare quel mondo di riflessioni in un racconto lineare e cinematografico.

Il suo Tre ciotole è un film sul corpo e sul cibo, ma non nel senso gastronomico del termine. È una storia su ciò che accade quando il corpo smette di nutrirsi perché qualcosa dentro si è interrotto: un lutto, una separazione, una diagnosi. Il cibo diventa così il punto di contatto tra vita e coscienza, tra appetito e consapevolezza.

 Il cibo come linguaggio emotivo

Marta e Antonio rappresentano due modi opposti di affrontare la fame. Lui, chef, vive nel mondo dell’abbondanza, dei gesti creativi, del nutrire gli altri; lei, dopo la fine del loro rapporto, perde il desiderio di mangiare: il corpo le si svuota insieme alla vita. Il cibo, che dovrebbe unire, in questo caso diventa strumento di distanza. Le inquadrature di Coixet insistono su piatti intatti, stoviglie lucide, mani ferme: l’assenza del gesto è la vera protagonista. Non c’è retorica né dramma urlato, ma una sottrazione continua — come se la fame fosse un modo per dire ciò che le parole non riescono a esprimere.

Nel passaggio dal libro al film, il simbolismo delle “tre ciotole” cambia forma ma non sostanza. Murgia usava il cibo come metafora della misura: nutrirsi con equilibrio, dare al corpo solo ciò che serve, ritrovare un rapporto etico con il desiderio. Coixet porta questo discorso dentro la quotidianità: la cucina di Antonio diventa lo spazio in cui la fame — o la sua assenza — prende corpo.

Mentre Marta si ritrae dal cibo, Antonio lo trasforma in ossessione. Per lui cucinare è un modo per colmare il vuoto, per lei digiunare è l’unico modo per restare lucida. Entrambi cercano nel nutrimento un equilibrio che non è più solo fisico, ma emotivo e spirituale.

Fame, salute e consapevolezza

Il film tocca anche un aspetto che nel libro era solo accennato: la connessione tra la perdita di appetito e la malattia. Quando Marta scopre che dietro la sua inappetenza c’è una causa medica, il tema della nutrizione si intreccia con quello della cura. Non si tratta più solo di cucinare o mangiare, ma di riconoscere il corpo come interlocutore.

In questo senso, Tre ciotole parla anche del nostro tempo: di corpi stressati, ipernutriti o trascurati; di un rapporto col cibo spesso squilibrato, oscillante tra culto e rifiuto. La perdita di fame diventa metafora collettiva di un disagio più ampio, quello di una società che fatica ad ascoltarsi.

Come nel libro, anche nel film il cibo è un atto politico. Murgia lo scriveva chiaramente: “Nutrirsi è scegliere cosa ci tiene vivi”. Coixet traduce quella frase in immagini semplici e dirette: un cucchiaio che si ferma, un pasto condiviso che non si consuma, un gesto di cura che non riesce a compiersi del tutto. Usa la tavola per parlare di fragilità, la fame per raccontare la perdita, la nutrizione per ragionare sulla cura.

In un’epoca di sovrabbondanza, Tre ciotole invita a un’altra idea di alimentazione: meno consumo, più consapevolezza. Mangiare — o non mangiare — diventa una forma di linguaggio, un modo per riconoscere il proprio limite, ma anche per ritrovare la presenza nel quotidiano.

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