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Quanto dovrebbe costare una tazzina di caffè al bar? Ce lo siamo chiesto anche noi e l'abbiamo chiesto a dei professionisti del settore. Secondo Oscar Farinetti, fondatore di Eataly e figura di spicco dell’imprenditoria alimentare italiana, dovrebbe costare di più: 2,50 euro a tazzina. Le sue parole, pronunciate durante un evento nello stabilimento Kimbo di Napoli, hanno immediatamente acceso il dibattito tra consumatori, baristi e addetti ai lavori. La provocazione ha fatto rumore — com’è nelle corde di Farinetti — ma solleva interrogativi non banali: quanto vale davvero un caffè?
Quella che può sembrare una semplice questione di prezzo, in realtà tocca temi più ampi: la sostenibilità della filiera, la percezione del lavoro artigianale, la cultura alimentare italiana e il rischio che, mantenendo certi prezzi artificialmente bassi, a rimetterci siano la qualità del prodotto e la dignità di chi lo prepara. Ma è davvero possibile cambiare il modo in cui il caffè viene valutato, narrato e consumato in Italia? E soprattutto: chi è disposto a pagare il doppio per qualcosa che considera parte della routine quotidiana?
Il caffè come cultura e mestiere
Durante un recente intervento presso lo stabilimento Kimbo a Napoli, Oscar Farinetti ha sollevato una questione che molti in Italia tendono a dare per scontata: quanto dovrebbe costare, davvero, un caffè al bar? Per Farinetti, la risposta è netta: “Almeno 2,50 euro.” Questa affermazione, destinata a far discutere, nasce da una riflessione più ampia sul ruolo del barista, che Farinetti definisce il "cuoco del caffè" — un professionista che, a suo dire, merita lo stesso rispetto e la stessa valorizzazione di uno chef. Dietro ogni tazzina, ricorda, ci sono competenze, scelta della materia prima, preparazione e servizio. Elementi che spesso vengono dati per scontati.
In Italia, dove il caffè è parte dell’identità nazionale e dove il prezzo medio al banco oscilla ancora tra 1 e 1,20 euro, l’idea di pagare più del doppio può sembrare eccessiva. Tuttavia, Farinetti giustifica la sua proposta con un dato concreto: il costo della materia prima è aumentato del 300%negli ultimi due anni, mentre il prezzo finale al consumatore è rimasto quasi immutato.
Secondo il fondatore di Eataly, si tratta di un’anomalia che non può reggere a lungo: se la filiera non è sostenuta economicamente, ne va della qualità e della stessa sopravvivenza dei bar indipendenti. In altre parole, un caffè troppo economico non è solo una buona offerta per il cliente: è un rischio sistemico per tutto il comparto.

Narrazione, percezione e paragoni fuorvianti
Farinetti insiste anche su un altro aspetto: la narrazione. A suo dire, in Italia il caffè non è stato "raccontato" abbastanza, al contrario del vino o dell’olio extravergine, che hanno visto crescere prestigio e prezzi grazie a un lavoro culturale e comunicativo di lungo periodo.
Il ragionamento non è privo di fondamento, ma rischia di ignorare un punto chiave: il caffè, per molti italiani, è un gesto quotidiano, quasi un diritto civile. Provare a trasformarlo in un prodotto “gourmet” può avere senso in certi contesti, ma non può diventare la regola generalizzata senza scontrarsi con la realtà sociale ed economica di milioni di persone.
La proposta di Farinetti ha inevitabilmente diviso. Da un lato, chi lavora nella filiera del caffè — dai coltivatori ai baristi — può vedere nell’aumento del prezzo un’opportunità per ottenere margini più equi. Dall’altro, molti consumatori vedono in questo discorso l’ennesimo tentativo di "speculare" su un’abitudine popolare. C’è poi chi fa notare che il problema della sostenibilità non si risolve semplicemente aumentando il prezzo al banco: servono politiche più ampie, contratti equi lungo tutta la filiera, formazione professionale e magari, sì, anche un cambiamento culturale. Ma senza scorciatoie retoriche.