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17 Agosto 2025 9:00

Le friselle del marinaio: come l’acqua di mare salvò il pane duro

Dalle stive delle barche ai pranzi sotto il pergolato: la lunga rotta della frisella, tra acqua salmastra e memorie del Sud.

A cura di Francesca Fiore
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Oggi la conosciamo come un piatto fresco e mediterraneo, simbolo dell’estate italiana servito con pomodorini, olio e basilico. Ma la frisella nasce con uno scopo ben preciso: durare. Ed è proprio dalla durezza di questo pane che prende vita una storia affascinante di viaggi, mare e ingegno contadino.

La frisella è il ponte tra due mondi: la fatica del mare e l’abbondanza della terra. È il pane che si rompe solo se tu glielo permetti, che ti chiede pazienza e rispetto: nata per durare, ha attraversato secoli, viaggi e trasformazioni senza perdere la sua anima. E se oggi la gustiamo sotto l’ombrellone con pomodorini e burrata, vale la pena ricordare che un tempo bastava un sorso d’acqua salata per farne un pasto degno di memoria.

Dalla terra al mare: le origini della frisella

Le friselle – o frisedde, come si chiamano nei dialetti del Sud Italia – sono anelli di pane biscottato, fatti essiccare dopo una prima cottura per garantire una lunga conservazione. Niente lievito, niente mollica soffice, niente deperibilità. Solo semola di grano duro, acqua e sale, cotti al forno e poi tagliati orizzontalmente prima di essere nuovamente infornati per diventare croccanti e resistenti.

Il loro nome compare in documenti antichi già nel Medioevo, ma è nell’uso dei marinai del Sud Italia – in particolare tra Puglia, Calabria e Campania – che la frisella assume la sua funzione più interessante: era il "pane del viaggio", quello che si portava sulle imbarcazioni per affrontare le settimane in mare senza che si deteriorasse.

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L’acqua salmastra come ingrediente

Il dettaglio che sorprende? Nei lunghi viaggi in barca, non si usava l’acqua dolce per ammorbidirla, perché troppo preziosa. La frisella veniva intinta direttamente nell’acqua di mare, oppure immersa in un misto di acqua e vino, giusto il tempo per renderla mordibile. È da qui che nasce il gesto originario di "sponzare" (inzuppare), ancora usato in dialetto per descrivere la preparazione.

Questo pane duro e ruvido si ammorbidiva quanto bastava per diventare commestibile, pur conservando la sua rusticità. Talvolta veniva condito con qualche scaglia di pesce secco o una goccia d’olio d’oliva, quando c’era. Ma più spesso era nudo, essenziale, nutriente.

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Dalla sopravvivenza al piatto estivo

Col passare del tempo e con la sedentarietà delle popolazioni rurali, la frisella ha abbandonato le barche per approdare nelle case e nelle masserie. È qui che il gesto del “bagnare la frisella” ha incontrato la terra: i pomodori coltivati sotto il sole del Sud, l’olio extravergine spremuto a freddo e qualche foglia di basilico fresco.

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Oggi la frisella è una vera e propria istituzione estiva. Si serve nei ristoranti, nei buffet, nelle sagre paesane. È economica, leggera, vegetale, e lascia spazio all’invenzione: si può completare con capperi, origano, acciughe, olive o verdure di stagione. Ma resta fedele a sé stessa: va sempre inzuppata, che sia in acqua fredda o in infusi più ricercati.

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Quello che i piatti non dicono
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