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5 Settembre 2025 16:00

Italia proibita: dai ghiri ai datteri di mare, viaggio nei piatti nascosti tra tradizione e illegalità

Un percorso tra ricette dimenticate, cibi clandestini e sapori che la legge ha bandito. Tra folklore, resistenza culturale e tutela ambientale, il lato oscuro della cucina italiana.

A cura di Francesca Fiore
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Neonata o bianchetti di pesce, oggi illegale

Dietro la cucina italiana più nota, celebrata nel mondo per la sua semplicità e autenticità, resiste un universo nascosto fatto di tradizioni culinarie proibite. Si tratta di piatti che la legge vieta per motivi ambientali, sanitari o etici, ma che continuano a sopravvivere nelle case, nei mercati paralleli e persino in alcuni ristoranti “fuori menu”. È un patrimonio controverso, sospeso tra memoria popolare e illegalità, che racconta un’Italia in bilico tra conservazione del gusto e rispetto delle regole.

Ghiri, istrici e piccoli roditori

Come ha ricordato Donato Notarachille sul Gambero Rosso, nelle zone interne della Calabria – dall’Aspromonte alle Serre – la caccia al ghiro sopravvive come tradizione clandestina. Protetto dalla legge italiana e dalle direttive europee (Convenzione di Berna, 1979), questo piccolo roditore un tempo era considerato una prelibatezza: cucinato al sugo con cipolla e peperoncino o arrostito. L’usanza affonda le radici nella cucina della fame, quando ogni fonte di proteine era preziosa. Oggi rappresenta più un legame con il passato che una necessità alimentare, ma resta un reato punibile con multe salate e, nei casi più gravi, con il carcere.

In Basilicata, come in altre aree del Centro-Sud, in tempi passati si mangiava l’istrice (Hystrix cristata), spesso confuso con il porcospino. Si tratta di un animale selvatico un tempo presente in abbondanza nei boschi e nelle campagne lucane, soprattutto nelle zone collinari e montane. La cucina povera lucana, segnata dalla scarsità di risorse e dalla necessità di sfruttare qualsiasi fonte proteica disponibile, includeva occasionalmente anche questa carne inconsueta. L’istrice veniva cucinato soprattutto in umido o al forno, con preparazioni simili a quelle del coniglio: spezie forti, aglio, vino rosso e abbondante pomodoro servivano sia a insaporirlo sia a coprire il gusto selvatico. Alcune testimonianze raccolte in contesti rurali raccontano che la carne fosse sorprendentemente delicata e apprezzata soprattutto durante le feste o in occasioni comunitarie.

Oggi, però, l’istrice è una specie rigorosamente protetta dalla legge italiana (L. 157/1992) e dalla Convenzione di Berna. Cacciarlo o consumarlo costituisce un reato penale: le sanzioni prevedono multe pesanti e, nei casi più gravi, anche il carcere. Questo ha fatto sì che la tradizione culinaria legata al “riccio di terra” sia scomparsa quasi del tutto, sopravvivendo solo nei racconti degli anziani o in sporadici episodi di bracconaggio.

I datteri di mare nelle zone costiere del Sud

Considerati un lusso proibito, i datteri di mare (Lithophaga lithophaga) sono vietati dal 1998 perché la loro raccolta richiede la frantumazione delle rocce marine, con effetti devastanti sui fondali. Nonostante i divieti, il commercio nero continua: la Guardia Costiera sequestra ogni anno quintali di prodotto e attrezzi da scasso. Un chilo di datteri può arrivare a costare fino a 200-250 euro sul mercato illegale, segno di una domanda che non accenna a calare, soprattutto in Campania, nel Salento e in Sicilia, dove si consumano crudi o negli spaghetti.

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I datteri di mare, oggi vietati per legge

Ma non sono solo i datteri a essere pescati illegalmente. I ricci di mare (Paracentrotus lividus) sono legali solo entro certi limiti: ogni pescatore può raccoglierne al massimo 50 esemplari al giorno e solo da novembre ad aprile. Ma in Puglia – soprattutto nel Salento – e in Sicilia è diffusa la raccolta fuori stagione e senza limiti, alimentando mercati paralleli. Consumati crudi o con gli spaghetti, rappresentano una tradizione fortemente radicata, ma la pressione di pesca minaccia seriamente l’ecosistema marino.

Veneto e Lombardia: gli uccellini con la polenta

Fringuelli, allodole, passeri e tordi – i celebri osei – erano protagonisti della cucina contadina del Nord Italia. Venivano serviti in umido o arrostiti, sempre accompagnati dalla polenta. Oggi la legge sulla caccia (157/1992) vieta la cattura e il consumo di queste specie, molte delle quali in forte declino. Tuttavia, nelle valli bergamasche e venete sopravvive un consumo clandestino, custodito in cerchie ristrette che lo considerano un simbolo identitario, quasi un rito iniziatico.

Sardegna: il casu marzu, il formaggio vivo

Forse il più famoso tra i cibi proibiti. Il casu marzu è un pecorino sardo colonizzato dalle larve della Piophila casei. Considerato un pericolo per la salute pubblica dall’UE e vietato dalla normativa sanitaria, resta tuttavia un emblema della cultura agropastorale sarda. Nel 2009 la CNN lo ha inserito nella lista dei “formaggi più pericolosi del mondo”, ma la sua fama lo ha reso anche un prodotto di culto, al punto che nel 2004 è stato inserito nell’elenco dei prodotti agroalimentari tradizionali dal Ministero delle Politiche Agricole. In molte zone rurali si continua a consumarlo privatamente, come atto di resistenza culturale.

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Il casu marzu sardo

Il caso del casu marzu o frazigu è diverso però dai precedenti: non si tratta di una specie a rischio, ma di un prodotto caseario che, con le dovute e rigorose norme, potrebbe continuare ad essere tranquillamente prodotto. Non a caso l'Università di Sassari, tramite il progetto "Casu frazigu" e in collaborazione con allevatori e l'agenzia regionale Agris, ha sperimentato un metodo per produrre legalmente il casu marzu, affrontando le problematiche di omogeneità del prodotto e le normative europee. Gli esperimenti mirano a standardizzare la produzione, garantendo standard igienici e sviluppando tecniche per l'allevamento controllato delle larve di mosca del formaggio.

Toscana, Liguria e Sud Italia: la neonata di pesce e le anguille

Un altro prodotto che, se consumato fuori legge, impatta gravemente sull'ambiente, in questo caso l'ecosistema marino. La “neonata” – novellame di sardine e acciughe – è vietata dall’UE dal 2010 perché la pesca dei pesci appena nati mette a rischio la sopravvivenza delle specie. Eppure, in Calabria (dove si chiama cicirella o sardella), Sicilia (dove si chiama nunnata), Puglia e Campania (bianchetto), continua ad apparire in cucine familiari e persino in ristoranti “informali”. Frittelle, polpette o spaghetti con la neonata restano tra i piatti più amati, anche se illegali. In Toscana e Liguria, invece, erano diffuse le “cieche”, ovvero le anguille novellate: anch’esse oggi protette, ma ancora presenti sul mercato nero.

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Frittelle di neonata o bianchetti, oggi sono illegali

Nord Italia: le rane tra tradizione e tutela

Frittura di rane e risotto alle rane erano piatti simbolo delle zone umide della Lombardia e del Veneto, soprattutto nelle risaie della Pianura Padana. Un tempo catturate liberamente, le rane sono oggi tutelate: la legge vieta la raccolta delle specie selvatiche, consentendo solo il consumo di esemplari allevati. La tradizione sopravvive nei ristoranti tipici, ma in molte campagne resiste anche la memoria di catture clandestine, segno di un legame profondo tra il territorio e questo anfibio diventato “quasi proibito”.

E il piccione?

Il piccione è un caso particolare: da un lato protagonista di piatti tradizionali in Toscana, Umbria e Veneto – come il piccione alla leccarda o il risotto al piccione – dall’altro, simbolo di un confine sottile tra legalità e proibizione. I colombi domestici allevati per la tavola sono legali e ancora oggi presenti in ristoranti e agriturismi, mentre i piccioni selvatici delle città e delle campagne non possono essere cacciati né consumati. Protetti dalla legge 157/1992 sulla fauna selvatica, rappresentano un alimento proibito non solo per motivi normativi, ma anche sanitari, data la possibilità di trasmissione di malattie.

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Cosce di rane arrosto

Altri animali proibiti

Accanto a ghiri, uccellini e datteri di mare, nella tradizione italiana compaiono anche altri animali oggi tabù. Le lontre, un tempo cacciate nelle zone fluviali dell’Italia centrale e meridionale, venivano utilizzate come fonte di carne ma sono ora specie minacciata e intoccabile. Anche le cicogne e gli aironi, abbattuti nelle zone paludose per farne arrosti o zuppe, sono stati messi sotto tutela a partire dal Novecento, quando la loro sopravvivenza in Italia è divenuta critica.

Ad esempio, le testuggini e le tartarughe terrestri, invece, un tempo utilizzate per brodi ricostituenti o rimedi popolari, sono oggi intoccabili per legge e inserite nelle liste internazionali delle specie minacciate.  Persino le tartarughe marine, in particolare la Caretta caretta, venivano occasionalmente consumate in Sicilia e Sardegna, soprattutto durante periodi di carestia: oggi sono protette a livello internazionale e la loro cattura costituisce reato penale. Questi esempi mostrano come il confine tra alimentazione e conservazione della natura sia diventato sempre più netto, trasformando piatti di sopravvivenza o di lusso in simboli di illegalità.

Ghiri al sugo, spaghetti con datteri di mare, frittelle di neonata, casu marzu con larve vive: piatti che non compaiono nei menu ufficiali ma che raccontano un’Italia sotterranea. Per alcuni sono patrimonio culturale da difendere, per altri un pericolo per salute e ambiente. Quel che è certo è che i cibi proibiti d’Italia ci ricordano che la cucina non è solo gusto, ma anche memoria, identità e conflitto con la legge.

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Quello che i piatti non dicono
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