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14 Novembre 2025 9:00

Il ragù alla bolognese e il paradosso del successo: è la ricetta più imitata (male) al mondo

Da piatto simbolo di Bologna a etichetta globale, il ragù alla bolognese è oggi la ricetta più imitata del mondo. Il suo nome muove miliardi di euro nel mercato dei sughi pronti, ma spesso nasconde prodotti che con l’originale hanno poco a che fare. Ecco come il piatto più famoso d’Italia si è trasformato in marchio e quanto della nostra tradizione è davvero rimasta dentro quel barattolo.

A cura di Francesca Fiore
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C’è un barattolo, su uno scaffale qualunque di un supermercato europeo, che racconta una storia tutta italiana. Sopra c’è scritto “Bolognese Sauce”, il colore è rosso acceso, sull’etichetta compaiono un tricolore discreto e magari un ciuffo di basilico. Basta quella parola – “Bolognese” – per evocare immediatamente l’idea di un piatto di casa, di un pranzo domenicale, di un’Italia che profuma di soffritto e tempo lento. Ma dietro quel nome si nasconde spesso tutt’altro: un sugo standardizzato, prodotto chissà dove, che con Bologna e il suo ragù ha poco o nulla a che fare.

È il paradosso del successo: il ragù alla bolognese è oggi la ricetta più imitata del mondo, e lo è proprio perché è diventato un simbolo. Un marchio universale che ha travalicato la tradizione per trasformarsi in categoria merceologica. E, come accade a tutti i simboli globali, più cresce la fama, più si allontana dall’origine.

Quanto vale un nome (e la confusione sul mercato)

Secondo il Rapporto ISMEA 2023, il fenomeno dell’Italian Sounding – cioè l’uso di nomi e immagini italiane per vendere prodotti che italiani non sono – vale più di 60 miliardi di euro all’anno. Significa che due terzi dei prodotti “italiani” venduti all’estero, in realtà, non provengono dall’Italia. Lo conferma anche la The European House – Ambrosetti, che nel 2024 ha stimato perdite enormi per le regioni più rappresentative del made in Italy agroalimentare: oltre dieci miliardi di euro per la Lombardia, quasi dieci per il Veneto e poco meno per l’Emilia-Romagna, la patria del ragù.

Il nome “Bolognese”, dunque, non è solo un riferimento geografico, ma un vero e proprio marchio economico globale, capace di muovere miliardi di euro e di evocare immediatamente italianità, anche dove di italiano c’è solo la scritta sull’etichetta. È l’esempio perfetto di come la reputazione culturale possa trasformarsi in valore di mercato, ma anche in distorsione commerciale.

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Il sugo “alla bolognese” è oggi una delle categorie più forti del comparto dei condimenti pronti. Secondo Verified Market Reports, nel 2024 il mercato globale delle “Bolognese Pasta Sauces” valeva circa 1,2 miliardi di dollari, con previsioni di crescita fino a 1,8 miliardi entro il 2033. Altri studi, come quello di WiseGuy Research, spingono la stima ancora più in alto, parlando di oltre 7 miliardi di dollari se si considerano anche le versioni vegetali e biologiche.

In Italia, la situazione non è molto diversa: i sughi pronti a base di pomodoro e carne, tra cui rientrano il ragù e la bolognese, coprono quasi la metà del mercato nazionale dei condimenti per pasta confezionati. È un settore in crescita, spinto dalla domanda di praticità e dalla voglia di piatti che “sanno d’Italia”, anche se pronti in cinque minuti.

Ma in questa crescita si nasconde una contraddizione evidente: il ragù bolognese nasce come una ricetta di pazienza, di fuoco basso e tempo, di gesti che non si possono abbreviare. Il barattolo, invece, vive di velocità, standardizzazione e marketing.

Dalla tradizione alla formula industriale

Il vero ragù alla bolognese è tutt’altro che una leggenda vaga: è un piatto con una carta d’identità ufficiale. Nel 1982, l’Accademia Italiana della Cucina depositò la ricetta autentica presso la Camera di Commercio di Bologna, per difenderla dalle imitazioni che già allora cominciavano a diffondersi.

Quella ricetta, aggiornata nel 2023, descrive un piatto costruito sulla lentezza: un soffritto sottile di sedano, carota e cipolla; carni anteriori di manzo, magari con un po’ di pancetta; una rosolatura paziente con vino bianco; un pomodoro usato con misura, giusto per legare, e non per dominare; infine un tocco di latte o panna per rendere tutto più morbido. Il risultato è un sugo denso, cremoso e complesso, pensato per accompagnare la pasta all’uovo, tagliatelle o lasagne.

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Nel mondo industriale, però, quel profilo cambia completamente. Il pomodoro diventa protagonista, la carne si riduce a una presenza simbolica, la cottura è breve e i sapori sono standardizzati. Il risultato? Un sugo che “suona” italiano, ma non parla più bolognese.

Quando l’imitazione non è solo una copia

Non tutte le imitazioni sono uguali. Alcune aziende lavorano bene, dichiarano apertamente un “Bolognese style” e cercano di riprodurre il carattere del piatto, anche se in versione semplificata. In quei casi, l’imitazione diventa quasi (quasi) un omaggio: un tentativo, più o meno riuscito, di rendere accessibile una ricetta complessa a chi non può passare ore davanti ai fornelli.

Molte altre, invece, sfruttano semplicemente il nome: vendono un sugo qualunque, prodotto in serie, pieno di zuccheri e addensanti, ma con l’etichetta “authentic Italian taste”. È qui che l’Italian Sounding mostra il suo lato più problematico: il nome “Bolognese” diventa una scorciatoia commerciale, un richiamo emotivo che sostituisce la sostanza.

Il barattolo, in questo senso, è un veicolo perfetto: il vetro trasparente fa sembrare tutto genuino, l’etichetta con la bandiera italiana rafforza l’illusione di autenticità, e la parola “Bolognese” funziona come garanzia implicita. È la formula magica del marketing alimentare: basta evocare l’Italia perché il consumatore percepisca qualità, anche quando la provenienza è tedesca, inglese o americana.

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Il ragu alla bolognese scompare dietro la Bolognese sauce

C’è qualcosa di profondamente ironico in tutto questo. Bologna, la città delle tagliatelle e della mortadella, è oggi “conosciuta” nel mondo attraverso un piatto che, quasi sempre, non è il suo. Il ragù bolognese è nato come cucina domestica, contadina e borghese insieme, frutto di scarti nobili e tempi lenti. Ma la globalizzazione lo ha trasformato in una formula, un sapore standard esportato in milioni di barattoli.

Eppure, dietro ogni imitazione, resta un fatto: il successo del ragù bolognese dimostra quanto la cucina italiana sia un linguaggio universale. È la prova che il gusto italiano continua a ispirare, anche quando viene semplificato.

Il problema non è l’adattamento, ma la perdita di identità: "difendere", o meglio diffondere, la ricetta originale non significa essere puristi, ma riconoscere che dietro ogni sugo – anzi ragu – “alla bolognese” ci sono una città, una storia e un modo di cucinare che vale la pena raccontare.

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Quello che i piatti non dicono
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