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14 Ottobre 2025
13:00

Il potere del “crunch”: perché i cibi croccanti ci piacciono così tanto

Dietro ogni morso croccante si nasconde una piccola sinfonia sensoriale: il suono del “crunch” non è un caso, ma il risultato di una perfetta combinazione di fisica, chimica e psicologia. Dalle ricerche neuroscientifiche ai laboratori delle grandi aziende, ecco perché il rumore del cibo ci conquista prima ancora del sapore.

A cura di Francesca Fiore
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C’è un momento preciso, quasi magico, in cui un cibo ci conquista: il morso: prima ancora del sapore, arriva il suono, quel crack, crunch o snap che annuncia freschezza, leggerezza, piacere. È un linguaggio universale, comprensibile a ogni cultura e a ogni età. Non è un caso se pubblicità e spot alimentari amplificano sempre quel rumore: la croccantezza non è solo una consistenza, ma un’esperienza multisensoriale che coinvolge udito, tatto e cervello.

Oggi ti raccontiamo perché amiamo così tanto i cibi croccanti e cosa accade davvero quando un alimento “scrocchia” sotto i denti, alla luce di ricerche scientifiche che hanno svelato il legame tra suono, struttura e piacere.

Il suono del gusto

Nel 2004, i neuroscienziati Massimiliano Zampini e Charles Spence condussero un esperimento diventato celebre: fecero assaggiare ai partecipanti delle comuni patatine Pringles, manipolando in cuffia il suono prodotto al morso. Quando il “crunch” veniva amplificato nelle alte frequenze, le patatine venivano giudicate più fresche e croccanti, anche se erano identiche alle altre.

Questo studio è la prova che il nostro cervello “assaggia” con le orecchie: la percezione di croccantezza è influenzata tanto dal suono quanto dal gusto. In pratica, il “rumore” del morso attiva le stesse aree cerebrali che rispondono a stimoli di freschezza e soddisfazione. Da allora, decine di ricerche hanno confermato come il suono sia una componente chiave dell’esperienza alimentare multisensoriale.

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Quando è la scienza a spiegarci la consistenza

Oltre all’udito, la croccantezza è una questione di fisica e umidità. Ogni alimento, infatti, ha una struttura interna fatta di minuscole celle d’aria e materiali rigidi (amidi, proteine, zuccheri) che si fratturano sotto la pressione del morso. La rapidità con cui queste fratture si susseguono genera quel suono “pulito” e secco che associamo al croccante.

Uno studio condotto all’Università di Wageningen ha dimostrato che la velocità del morso incide sulla percezione di croccantezza: più è rapida la rottura, più il cervello interpreta il segnale come “crisp” e “fresco". Al contrario, la presenza di umidità riduce questo effetto.

L’acqua, infatti, è il nemico invisibile del “crunch”. Quando l’“attività dell’acqua” (aw) in un alimento supera una soglia critica — spesso tra 0,35 e 0,50, secondo gli studi di Katz e Labuza dell’Università del Minnesota — la struttura perde rigidità, il suono si smorza e la percezione di freschezza svanisce. È il motivo per cui una patatina lasciata aperta una notte diventa molle: le sue pareti microscopiche hanno assorbito umidità dall’aria, passando da rigide a plastiche.

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Come l'industria alimentare sfrutta la croccantezza

La croccantezza è un equilibrio fragile, ma anche un’arma potentissima di seduzione sensoriale. L’industria alimentare lo sa bene: il crunch è uno dei suoni più riconoscibili e gratificanti per il cervello umano, tanto che oggi viene progettato come un vero e proprio ingrediente.

Nei laboratori di ricerca sensoriale, si parla di food sound design: si studiano frequenze, ampiezze e tempi di frattura per ottenere il “rumore perfetto” del morso. Gli alimenti vengono analizzati con strumenti di precisione — come i texture analyzer e i microfoni ad alta sensibilità — che registrano il profilo acustico della rottura. Da questi dati nascono grafici che mostrano quante e quanto intense sono le fratture microscopiche della struttura. Più i “picchi sonori” sono ravvicinati, più il cibo viene percepito come crispy e fresco. Alcune aziende confrontano addirittura questi suoni con modelli digitali, per garantire che ogni lotto “suoni” come deve.

Dietro ogni patatina perfettamente croccante, cracker o cereale da colazione, c’è una strategia tecnologica precisa:

  • la formulazione (il rapporto tra amidi, zuccheri e grassi) controlla la porosità e la fragilità;
  • la cottura o frittura definisce il contenuto d’acqua e la transizione vetrosa del prodotto;
  • il raffreddamento controllato evita condense che ammorbidirebbero la superficie;
  • infine, il confezionamento in atmosfera modificata (MAP) — spesso con azoto — isola il prodotto da ossigeno e umidità, preservando il suono del “crack” fino all’apertura. E questo è il motivo per cui i pacchi di patatine industriali risultano "mezzi vuoti".

Ma la croccantezza non è solo tecnologia: è anche marketing sonoro. Spot e campagne pubblicitarie amplificano deliberatamente il rumore del morso per trasmettere freschezza, genuinità e piacere immediato. Il cervello, infatti, interpreta quel suono come una conferma di qualità: un segnale che il cibo è fresco e “vivo”.

Negli ultimi anni, però, la croccantezza è diventata anche un territorio di innovazione sostenibile. Molte aziende stanno cercando di riprodurre lo stesso effetto sensoriale riducendo frittura, grassi e impatto ambientale. Tecnologie come la frittura ad aria, l’essiccazione a infrarossi o il baking controllato permettono di ottenere prodotti croccanti con meno olio e meno energia. Allo stesso tempo, si sperimentano ingredienti vegetali alternativi (legumi, cereali antichi, scarti di frutta o bucce) che mantengono la stessa risposta acustica e tattile. Anche il packaging entra in gioco: materiali compostabili o barriere naturali devono garantire la stessa protezione dall’umidità delle tradizionali confezioni plastiche, per non sacrificare il “crunch” sull’altare dell’ecologia.

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A cura di
Francesca Fiore
Giornalista gastronomica e coordinatrice editoriale di Cookist, sono da sempre appassionata di tradizioni locali, prodotti tipici e itinerari culinari. Dopo varie collaborazioni sul turismo gastronomico, nel 2015 ho seguito il master del Gambero Rosso in giornalismo gastronomico alla Città del Gusto di Roma, per approfondire la mia passione per il cibo. Ho lavorato poi in diverse redazioni (Gambero Rosso, Marcopolo, La gola in viaggio, Melarossa), dirigendo anche un magazine cartaceo dedicato al gastroturismo. Nel corso degli anni ho approfondito diversi tematiche, seguendo un corso di degustazione dei formaggi e dei prodotti caseari (Onaf Roma), un di degustazione dell'olio extravergine di oliva (Gambero Rosso, vari produttori) e un corso base di degustazione del caffè (Faro Roma). Ho inoltre studiando temi per me cruciali, come la produzione sostenibile di cibo, l'impatto ambientale della produzione alimentare, la consapevolezza delle scelte di acquisto. Cresciuta tra i paesaggi autentici dei Nebrodi, territorio che fa della gastronomia un patrimonio culturale fondamentale, ho sviluppato un forte interesse per le contaminazioni culinarie e per le storie personali che si intrecciano al cibo. Oltre al lavoro quotidiano, porto avanti attività di studio e ricerca nel campo della gastronomia e della storia culinaria italiana, passioni che arricchiscono costantemente il mio approccio editoriale.
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