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25 Febbraio 2023 15:00

Il caffè nel mondo: le differenze culturali tra Italia e Stati Uniti

Il caffè in Italia ha tanti nomi e una storia lunghissima, diverso è l'approccio negli Stati Uniti, la cui cultura è legata a doppio filo a quella italiana.

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Mille abiti diversi per un unico grande protagonista: il caffè e il suo impatto nella vita di tutti i giorni. C'è chi preferisce berlo lungo, chi ristretto, chi macchiato freddo in tazza di vetro. Il caffè è una delle bevande più consumate al mondo e in Italia trova terreno fertile, con un'intera popolazione da soggiogare con il suo gusto e il suo aroma. Il commercio di caffè nel nostro Paese è attivo fin dal 1500. In Italia siamo quindi ossessionati dal caffè da tempo immemore, cosa che non si può dire degli americani: il rapporto tra gli statunitensi e il caffè è molto complicato e abbastanza recente, ma sono bastati pochi anni per farli innamorare del prodotto e di tutta la ritualità a esso collegata. L'approccio alla bevanda è però ancor oggi molto diverso tra le due culture. Vediamo tutte le differenze tra Italia e Stati Uniti: due nazioni in cui la coffee culture ha cambiato le sorti del Paese.

Cosa c'entra l'Italia col caffè?

La storia che ci lega al caffè è secolare: abbiamo radici profonde che ci uniscono a questa bevanda. Tanto per cominciare: il caffè arriva in Europa proprio grazie agli scambi con l'Italia. Fa parte di un vero e proprio rito sociale, una tradizione incredibile e un percorso fatto da momenti storici rilevanti, ingegneri lungimiranti e grandi aziende che ancor oggi sono leader dei mercati mondiali.

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L'amore che gli italiani hanno per il caffè è il perfetto colpo di fulmine. Pensa che tra le pochissime materie prime provenienti da "altri mondi" che la chiesa mette al bando per secoli non c'è il caffè. Le patate e i pomodori sono visti come prodotti demoniaci, il tabacco passabile addirittura di scomunica se fumato nei luoghi sacri ma il caffè, quello no.

Clemente VIII va contro i suoi stessi cardinali elettori per difendere il caffè: secondo gli alti prelati sarebbe una bevanda del diavolo perché piace tanto ai musulmani ed è consumata in Medio Oriente ma Ippolito Aldobrandini, questo il nome di battesimo del Papa, risponde ironicamente che il caffè potrebbe essere anche una bevanda del diavolo "ma è così buona… che dovremmo cercare di ingannarlo e battezzarlo". Questo passaggio non è da poco perché a partire dal 15 agosto 1592, data di promulgazione della bolla Pro commissa nobis firmata da Clemente VIII, il caffè si diffonde in tutto il territorio italiano, concentrandosi maggiormente nelle città di Venezia, Roma, Torino, Padova, Trieste e Napoli. In breve tempo associamo questo rito al relax e alle conversazioni piacevoli: l'Illuminismo stesso, base della scienza moderna, nasce nei caffè letterari in Inghilterra, Francia e Italia.

Per renderci conto di quanto attorno al caffè ruoti la cultura europea ti citiamo "Il caffè", un periodico fondato da Pietro e Alessandro Verri con il celebre Cesare Beccaria, tra i giornali di riferimento dell'Illuminismo continentale, che omaggiano il ruolo della bevanda nello sviluppo culturale del tempo. A Venezia, Torino e Napoli si sarebbero concentrati tra il ‘700 e l'800 i caffè più importanti d'Europa, sulla scia della coffee culture viennese portata nel Bel Paese dal Grand Tour.

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Non possiamo poi ignorare il contributo tecnico che abbiamo dato allo sviluppo del caffè: Luigi Bezzera è colui che ha inventato la macchina per la produzione dell'espresso, o Angelo Moriondo, inventore della prima macchina per fare l'espresso, o ancora Achille Gaggia, inventore del processo di estrazione. All'estero spesso vengono sollevati dei dubbi sulla reale paternità del caffè italiano e ne hanno ben donde: il caffè non nasce qui da noi ma, senza dubbio, l'Italia è la patria spirituale del caffè, la nazione in cui è nata la definizione stessa della bevanda.

Finché non ci hanno messo le mani i nostri antenati, il caffè aveva una tostatura lenta, scura, ed era quasi esclusivamente tipologia Robusta perché veniva tostato in forni a legna simili a quelli usati per la pizza. Tanta approssimazione, pochissima cura dell'ingrediente. Con le innovazioni tecnologiche riusciamo a perfezionare tutto il procedimento fino agli anni '50, un periodo di grande rinascita dopo i tanti anni di surrogati: il caffè diventa scuro, stretto, intenso, da consumare rapidamente e in piedi, appoggiati al bancone. Questa usanza ce la siamo portata fino ai giorni nostri, ma dagli anni '60 in poi le cose cambiano: il boom economico porta tanti nuovi esperimenti e le torrefazioni italiane migliorano a vista d'occhio. Il caffè diventa il momento perfetto per condividere la giornata con gli affetti più cari. Il caffè diventa la scusa per incontrarsi, per scambiare due chiacchiere, per emozionarsi, abbracciarsi, baciarsi. Il caffè diventa la scusa degli italiani, trascende la tazzina, diventa un momento metafisico. Questo è il caffè per noi italiani: un modo per dire "ti voglio bene" a chi ci sta vicino.

Gli italo-americani portano il caffè nel Nuovo Mondo

Se avessimo scritto questo articolo 50 anni fa avremmo avuto ben poco da dire. Non che il caffè non fosse arrivato già negli Stati Uniti ma c'è indubbiamente un "prima Starbucks" e un "dopo Starbucks". Il tutto è ovviamente legato al classico caffè americano.

Secondo la leggenda sarebbe nato in Italia per soddisfare i soldati americani durante la seconda guerra mondiale, perché per loro l'espresso classico sarebbe risultato troppo "forte", sulla falsa riga della nascita dello spritz (acqua frizzante nel vino per alleggerire la gradazione). In realtà è solo una leggenda e il termine "caffè americano" compare già nel libro "Ashenden", scritto da Somerset Maugham nel 1927. È probabile però che sia stato coniato dagli italo-americani, a indicare un espresso "allungato" servito nei bar della East Coast. Sempre noi, non c'è niente da fare: l'Italia è la patria del caffè anche all'estero. In America lo portiamo noi, con delle gigantesche macchine per l'espresso stipate sulle navi e destinate solo ai più ricchi e/o intraprendenti baristi dell'epoca. Abbiamo raccontato il caso della nascita del cappuccino in America: una storia fatta di fame e coraggio. Le storie del caffè statunitense sono più o meno tutte uguali, tutte sulla falsa riga di Mimì Parisi.

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I primi macinini arrivano anche prima, già nel 1800, e spesso vengono donati agli indiani d'America come segno di buona volontà dell'uomo bianco. Buona volontà quasi mai confermata. C'è perfino una scena in "Balla coi Lupi" in cui Kevin Constner mostra un macinacaffè d'epoca ai suoi nuovi amici, molto attinente con la realtà dei fatti storici. A proposito di cinema, impossibile non citare l'incredibile scena d'avvio di "Colazione da Tiffany": Audrey Hepburn si trova al 727 5th Avenue coi guanti neri e le perle al collo, gli occhiali giganteschi che le incorniciano il volto iconico, mentre mangia un croissant e sorseggia, pensierosa, un caffè bollente da un bicchiere di carta. Esattamente come potrebbe fare una qualsiasi persona al giorno d'oggi: probabilmente però quel caffè avrebbe il logo di una sirena impresso sopra.

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Screenshot dal film

Il film di Blake Edwards è del 1961 e rende il caffè americano "da strada" un accessorio imprescindibile per le donne di quella generazione. Anche grazie a questo capolavoro cominciano a fiorire le prime vere e proprie caffetterie. Fino ad allora il caffè era una cosa relegata al mondo dei "dinner", quelli che abbiamo imparato a conoscere con "Grease", tanto per intenderci. Il caffè come l'acqua: bicchierone a tavola, da abbinare anche ai piatti salati, e caffè a volontà con la cameriera che rimpingua la tazza ogni volta che si vuole. Le caffetterie cambiano la percezione della bevanda: nei Paesi anglosassoni, ancora oggi, andare in caffetteria è sinonimo di chiacchierata lunga, di perdita di tempo. I clienti delle caffetterie le usano per l'asporto, come Audrey Hepburn, o per stare comodi ore e ore, come i protagonisti di "Friends" spaparanzati al Cental Perk. Anche il momento della giornata in cui si fruisce del locale è diverso: da noi è un continuo, non è inusuale andare a bere un caffè anche dopo cena; in America è legato alle ore buche proprio in virtù di questa tendenza al dolce far nulla. In quest'ottica si inserisce un responsabile marketing a dir poco geniale: Howard Schultz.

Dopo Starbucks nulla è stato più come prima

Oggi è ritenuto essere il vero fondatore di Starbucks, ma dobbiamo fare ordine nella cronologia: l'azienda della sirena viene fondata nel 1971 da tre amici ed è la prima caffetteria a immaginarsi come tale e a mettere le basi per il franchising. Vuole creare un movimento nuovo, sfruttando la fervente scena culturale della propria città, Seattle. La coffee culture americana non può prescindere dalla città da cui parte.

La Seattle degli anni '70, '80 e '90 vive un trentennio irripetibile per tutte le località del pianeta. Negli anni '70 Bill Gates e Paul Allen fondano Microsoft, la morte di Bruce Lee (adottato dalla città) crea un forte movimento antirazziale e un'esplosione della passione per le arti marziali che porta a numerose medaglie olimpiche e ad atleti che sfondano le barriere dei diritti civili, la Boeing si risolleva dalla crisi e progetta gli Space Shuttle, la squadra NBA dei Sonics è finalmente competitiva e c'è la nascita del grunge, il movimento che vede nei Nirvana la massima espressione artistica.

In tutti questi anni si crea tutta una cultura fatta di slow motion molto distante dal resto degli Stati Uniti: c'è la liberalizzazione delle droghe leggere e viene fondata la Pride Foundation, una delle più importanti organizzazione per i diritti LGBT+ del pianeta. Vengono abbattute le barriere sociali e in quest'ottica si inserisce l'idea di caffetteria di Shultz. Questo newyorkese decide infatti di investire nel caffè dopo un viaggio in Italia: di ritorno in patria fonda "Il Giornale", una caffetteria che mette al centro il cliente e il suo benessere. Diventa un punto di riferimento in città e con 4 milioni di dollari compra le 6 sedi "originali" di Starbucks. Diventeranno 667 nel 1995 e 3501 nel 2000. L'anno dopo abbandona la carica di Ceo e si compra i Seattle Supersonics: un incredibile successo difficile da spiegare perché è la perfetta combinazione tra la mentalità imprenditoriale a stelle e strisce e la nostra arte dell'accoglienza.

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Queste caffetterie diventano un motivo d’incontro, di socializzazione o di pausa dal resto del mondo: tre elementi che a noi sembrano scontati ma che sono la base della nascita del colosso di Seattle. Cominciano col servire caffè, cappuccino, latte ma per distinguersi creano una gamma di prodotti innovativi e, soprattutto, personalizzabili: i famosissimi dolci, i nomi sbagliati scritti sulla confezione, la creazione del rinomato "frappuccino", bevanda a base di caffè, ghiaccio e panna montata. Le varianti sono infinite perché le può creare il cliente stesso. È lui il padrone del prodotto, come fosse a casa sua. Chiunque può dar vita alle novità, basta soddisfare la tentazione del momento: esattamente quel tipo di mentalità messa a punto dai grandi artisti di Seattle. Come hai potuto notare tu stesso, l'espansione forte la vediamo tra il '95 e il 2000: non a caso è l'inizio dell'Era di internet. Starbucks è uno dei primi locali a intuirne l'importanza, a sfruttarlo sia online sia offline offrendo a tutti i clienti una connessione gratuita illimitata che porta a un aumento di clienti, della sensazione di socialità e comfort tanto ricercata al tempo.

Il nostro amore per l'espresso ha portato il caffè in America ma a conquistare la "Terra delle opportunità" è stato il nostro amore per l'ospitalità. Il caffè passa da "bevanda da passeggio" a "bevanda da seduti" perché un uomo intuisce l'importanza di far sentire i propri clienti in pace con se stessi, senza essere giudicati. Da Seattle, una città all'estremità Nord-Ovest del Paese, un movimento culturale sospinto dall'arte e dagli artisti è riuscito a conquistare ogni angolo degli Stati Uniti. Un risultato incredibile che ha contribuito ad aumentare il cappio della globalizzazione: le mani del "caffè americano" hanno toccato ogni angolo del pianeta, tutto grazie all'amore per i bar che hanno gli italiani.

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A cura di
Leonardo Ciccarelli
Nato giornalista sportivo, diventato giornalista gastronomico. Mi occupo in particolare di pizza e cocktail. Il mio obiettivo è causare attacchi inconsulti di fame.
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