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12 Agosto 2025 13:02

Dietro il vetro dell’acquario: cosa succede agli animali vivi e le regole per i ristoranti

Oggi, in Italia, il destino di un’aragosta in un ristorante dipende meno dalla legge e più dal locale in cui si trova. Le norme europee e nazionali garantiscono igiene e sicurezza alimentare, ma dicono poco — troppo poco — sul benessere degli animali vivi, lasciando spazi enormi a interpretazioni divergenti.

A cura di Francesca Fiore
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In Italia, soprattutto nelle località di mare, la scena è familiare: un acquario all’ingresso di un ristorante, illuminato da luci bluastre, dove aragoste e astici si muovono lentamente, a volte con le chele legate. Oppure, nei ristoranti più raffinati, il cliente può scegliere direttamente l’animale che, pochi minuti dopo, sarà cucinato e servito. Per molti avventori, questa pratica è garanzia di freschezza; per altri, è motivo di disagio, quando non di indignazione.

Dietro questa consuetudine si cela un quadro normativo complesso e frammentato. L’Unione Europea e lo Stato italiano regolano con precisione aspetti come l’igiene, la tracciabilità e la sicurezza alimentare, ma sono molto meno chiari quando si tratta di benessere degli invertebrati acquatici come crostacei e molluschi. Il risultato è un territorio giuridico dove coesistono regole sanitarie rigide, vuoti legislativi sul trattamento degli animali vivi, e interpretazioni divergenti dei tribunali.

Negli ultimi anni, alcune sentenze hanno iniziato a ridisegnare i confini di ciò che è considerato lecito. La Corte di Cassazione, ad esempio, ha stabilito che conservare aragoste vive su ghiaccio con le chele legate costituisce maltrattamento, mentre in altri casi giudici di merito hanno assolto ristoratori ritenendo che questi animali, una volta destinati alla cucina, siano “alimenti” e non più oggetto di tutela penale. Nel mezzo, si inserisce un dibattito etico crescente, che guarda alle esperienze di Paesi dove lo stordimento preventivo è obbligatorio e la detenzione segue regole più severe.

Ma vediamo cosa dice realmente la normativa italiana, cosa è permesso e cosa non lo è, e quali pratiche si stanno affermando tra esigenze gastronomiche, rispetto per il cliente e nuove sensibilità sul benessere animale.

Cosa dice la legge: un mosaico di regole e vuoti normativi

Ufficialmente, per la legge italiana ed europea, un’aragosta viva in un acquario di ristorante non è più un animale: è un “alimento vivo”. Può sembrare un paradosso semantico, ma è la logica del Regolamento CE 178/2002, che stabilisce che ogni animale destinato alla commercializzazione e al consumo umano entra nella categoria degli alimenti. Non un essere senziente, dunque, ma un prodotto da conservare e somministrare in sicurezza.

Le norme comunitarie sono chiare su un punto: i crostacei devono essere mantenuti in condizioni che garantiscano sia la sicurezza alimentare sia la vitalità (Reg. CE 853/2004). Vitalità, però, intesa in senso igienico — perché un crostaceo vivo al momento della cottura è meno rischioso dal punto di vista sanitario — non come garanzia di benessere.

E qui si apre il primo grande vuoto normativo: nessuna legge italiana o europea stabilisce in modo preciso come questi animali debbano essere custoditi in un ristorante. Non esistono regole su dimensione minima degli acquari, qualità dell’acqua o divieto di legare le chele per lunghi periodi. Tutto è affidato alla prassi commerciale, alle linee guida del manuale HACCP e, in alcuni casi, a regolamenti comunali o regionali.

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L’unico vero freno arriva dalla giurisprudenza. Nel 2017, la Corte di Cassazione ha creato un precedente importante: condannare un ristoratore per aver tenuto aragoste vive su ghiaccio con le chele legate. Per i giudici, quella modalità di detenzione causava “sofferenza inutile”, quindi maltrattamento (art. 727 c.p.). Una decisione applaudita dalle associazioni animaliste, ma subito bilanciata, negli anni successivi, da sentenze di segno opposto: nel 2024 il Tribunale di Roma ha assolto un ristoratore per una condotta simile, sostenendo che i crostacei, essendo “alimenti”, non rientrano nel perimetro di protezione della normativa sul maltrattamento.

Il risultato è un sistema incoerente: la stessa pratica può essere considerata reato in una città e perfettamente legale in un’altra, a seconda del giudice o dell’interpretazione prevalente. Intanto, la legge continua a parlare quasi esclusivamente di igiene e sicurezza, ignorando la questione del benessere animale, che rimane affidata a sensibilità individuali, regolamenti locali e alla buona volontà dei ristoratori più attenti.

La macellazione in cucina: tra tradizione e crudeltà

Nel rituale gastronomico italiano, l’idea di uccidere l’animale al momento della preparazione è sinonimo di freschezza. In molti ristoranti di pesce, il cliente sceglie l’aragosta o il granchio direttamente dall’acquario: pochi minuti dopo, l’animale è in pentola. Per il polpo o i cefalopodi, il passaggio può essere ancora più diretto: dalla vasca o dal banco, dritto in cucina.

Dal punto di vista legale, in Italia non esistono obblighi di stordimento preventivo per crostacei e molluschi. È un’assenza normativa che stona se confrontata con le regole per i vertebrati terrestri, dove la macellazione è rigidamente regolamentata per ridurre la sofferenza. Qui, invece, le modalità di uccisione restano nelle mani del cuoco: cottura in acqua bollente, colpo alla testa, taglio del carapace, o — nei casi peggiori — morte lenta su ghiaccio.

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Eppure, molti studi scientifici internazionali hanno messo in discussione la convinzione che uccidere questi animali immediatamente prima della cottura migliori il risultato gastronomico. Alcune ricerche condotte in ambito universitario hanno mostrato che il sapore e la consistenza della carne di crostacei e cefalopodi dipendono molto più da fattori come freschezza della cattura, corretta conservazione e tecnica di cottura, piuttosto che dal fatto che l’animale sia stato cucinato vivo. Anzi, in alcuni casi, un abbattimento rapido e un successivo raffreddamento controllato possono persino migliorare la tenerezza e preservare aromi naturali, riducendo l’effetto gommoso tipico di una cottura brusca da vivo.

A livello internazionale, il quadro è molto diverso: la Svizzera, ad esempio dal 2018 vieta di bollire crostacei vivi senza stordimento elettrico o meccanico. La Nuova Zelanda riconosce alcuni crostacei e polpi come “animali senzienti” e impone metodi di abbattimento rapidi. Anche alcune regioni australiane hanno regole simili. In Italia, invece, il legislatore non ha mai affrontato in modo diretto la questione, lasciando che a parlare siano solo le aule dei tribunali.

Quando la magistratura interviene, lo fa con risultati contrastanti. La Cassazione, nel 2017, ha considerato “crudeltà” prolungare l’agonia di un animale vivo su ghiaccio, mentre altri giudici hanno legittimato pratiche identiche richiamando lo status di “alimento” attribuito dalla normativa europea. È una giostra interpretativa che lascia i ristoratori in un limbo giuridico e gli animali in un’area grigia dove il concetto di benessere è opzionale.

Il paradosso è evidente: l’ordinamento tutela la vitalità del crostaceo finché serve a garantirne la freschezza, ma non prevede alcuna tutela quando la sua vita sta per essere interrotta. Una contraddizione che, con la crescente attenzione del pubblico verso il benessere animale, rischia di diventare sempre più difficile da giustificare.

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Buone pratiche e proposte di riforma

Se la legge italiana non impone regole precise, la differenza tra rispetto e trascuratezza sta tutta nella responsabilità del ristoratore. Ed è qui che, fortunatamente, emergono buone pratiche che dimostrano come sia possibile conciliare tradizione gastronomica e attenzione per il benessere animale.

Molti locali di fascia alta mantengono i crostacei in acquari ampi, con acqua filtrata e ossigenata, temperatura stabile e condizioni il più possibile simili all’habitat naturale. Le chele, quando legate per sicurezza, vengono liberate periodicamente per permettere movimenti e ridurre lo stress. Alcuni chef scelgono di applicare metodi di stordimento rapido — come lo electrical stunning o un colpo meccanico al capo — prima della cottura, non perché lo imponga la legge, ma per ridurre la sofferenza e rispondere a una clientela sempre più sensibile.

Sul fronte normativo, diverse associazioni animaliste e ordini professionali della ristorazione hanno proposto interventi concreti:

  • Divieto di conservazione prolungata su ghiaccio per animali vivi.
  • Obbligo di stordimento rapido prima della cottura, sul modello svizzero.
  • Standard minimi per acquari e vasche nei locali, con controlli periodici.
  • Formazione specifica per cuochi e personale sulle tecniche di manipolazione e abbattimento più etiche.

Una regolamentazione più chiara avrebbe un doppio vantaggio: proteggere gli animali da sofferenze evitabili e dare ai ristoratori certezze giuridiche, evitando condanne o sanzioni basate su interpretazioni variabili della stessa legge.

Le sentenze della magistratura hanno acceso un faro su pratiche ritenute crudeli, ma non sono riuscite a creare un quadro uniforme: la stessa condotta può essere lecita o illecita a seconda di chi la giudica.

Il paradosso rimane: la vitalità del crostaceo è tutelata finché serve al consumatore, non all’animale. È una visione utilitaristica che si scontra con una sensibilità pubblica in rapida evoluzione, sempre più attenta all’etica, anche quando si tratta di invertebrati che, fino a pochi anni fa, non avrebbero avuto alcuna considerazione fuori dalla pentola.

Per ora, tutto resta affidato alla sensibilità individuale e alle scelte dei singoli locali. Alcuni continuano a operare come se nulla fosse cambiato negli ultimi decenni; altri, invece, anticipano la legge, trasformando un potenziale punto critico in un segno distintivo di qualità e responsabilità. In un settore dove l’immagine conta quanto il piatto, il trattamento riservato agli animali vivi può diventare un elemento di reputazione, positivo o negativo, capace di influenzare clienti e critica.

Il dibattito non è più confinato agli attivisti o agli addetti ai lavori. Clienti, chef, giuristi e persino alcuni legislatori iniziano a chiedere regole più chiare: non per eliminare una tradizione gastronomica, ma per aggiornarla a una nuova consapevolezza. La ristorazione italiana ha costruito il proprio prestigio su qualità, rispetto delle materie prime e capacità di emozionare. Forse è arrivato il momento di includere, tra gli ingredienti di questo successo, anche il rispetto per la vita che precede il piatto.

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Quello che i piatti non dicono
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