
La comparsa della specie umana si fa risalire a 200.000 anni fa, mentre l’agricoltura arriva più o meno 10.000 anni fa: nel mentre, abbiamo imparato a cibarsi di quello che la terra offriva, tra piante, fiori, frutti, radici, alghe, muschi, resine che nel corso dei millenni sono stati i protagonisti della dieta. In realtà, non servirebbe neppure tornare così indietro nel tempo, perché qualcuno si ricorderà quando era bambino una nonna, un nonno, un parente più agé che “andava per erbe” nei boschi, lungo i fossati, ai bordi dei campi coltivati e, ancora più recentemente, ecco un amico, diventato appassionato raccoglitore, tanto da farne una professione. Il foraging, ovvero la raccolta di cibo che cresce spontaneo, è stata una pratica necessaria per alimentarsi e in tempi recenti ha appassionato chef e “persone comuni” per il suo streto legame con una cucina sempre più vegetale.
Che cos’è il foraging
Probabilmente chi bazzica il mondo della gastronomia non lo ha dimenticato: sono passati ormai vent’anni dalla famosa rivoluzione della cucina nordica, quando René Redzepi e altri chef della scena scandinava, islandese e della Groenlandia firmavano il celebre Manifesto for the New Nordic Cuisine, per esaltare i prodotti locali sotto il segno del rispetto del territorio, della stagionalità e del benessere animale. Cos’hanno da offrire quelle lande sferzate dal freddo e dal vento? Muschi, licheni, bacche, funghi, erbe selvatiche e alghe: davanti alle telecamere Redzepi lo si vedeva così, chinato al suolo o appeso a qualche arbusto, intento a spiegare che nel suo ristorante, il leggendario Noma di Copenhagen, il cibo lo si procacciava grazie al foraging, ovvero l’arte di raccogliere i doni della natura senza danneggiarla.
Una lezione che ha fatto scuola nelle cucine professionali, ma anche domestiche, complice la crisi economica, una rinnovata sensibilità ambientale dovuta agli effetti del cambiamento climatico e all’interesse verso un’alimentazione più salutare, con la carne che perdeva progressivamente il suo ruolo primario come fonte di nutrimento. Al di là degli inglesismi, il foraging non è un’invenzione contemporanea, ma si metteva già in atto in passato nelle case contadine, dei pastori e dei montanari, quando contro le carestie e la penuria di cibo si ricorreva alla fitoalimurgia: il termine unisce le parole fito (pianta) e alimurgia (alimenta urgentia), e indica la scienza di riconoscere e impiegare quelle piante spontanee edibili considerate perlopiù inutili, ma che invece si rivelano fondamentali in caso di necessità.

Nomi da sapere e urban foraging
Questo tipo di raccolta coinvolge soprattutto erbe, piante, fiori e frutti che si trovano al di fuori dei centri urbani, quindi nei boschi in montagna, nei prati, lungo i fossati, ai bordi dei campi, dove spuntano, tra le tante specie, tarassaco, borragine, acetosella, malva, pimpinella, portulaca: sono ricche di sostanze benefiche, saporite e gratuite, tutte caratteristiche che non si trovano più (o quasi) della verdura e della frutta che si compra al supermercato.
In Italia, tra le personalità che hanno contribuito maggiormente alla diffusione di questa pratica ci sono Eleonora Noris Cunaccia, meglio nota come la “signora delle erbe”, con il suo laboratorio Primitivizia, che ha sede in Trentino, nel Parco Nazionale delle Dolomiti del Brenta; Valeria Margherita Mosca, antropologa ed esperta etnobotanica che ha fondato il Wooding Wild Food Lab, una realtà che si occupa esclusivamente di cibo selvatico, tra corsi di formazione, catering e progetti a 360°, dall’editoria all’educazione scolastica; infine segnaliamo Alessandro Di Tizio, che dopo la formazione all’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo e l’Accademia di Niko Romito è approdato come forager al Mirazur di Mauro Colagreco, seguendo gli orti e i giardini del ristorante pluristellato.
Si possono prendere anche piante e frutti in città? Si definisce urban foraging, ma in realtà non consente di prelevare a proprio piacimento ciò che cresce in città o attorno al suo perimetro: più che un discorso sull’inquinamento – perché non è detto che una mela di campagna sia meno contaminata – il tema è quello della biodiversità urbana da tutelare. Nel mondo, a riguardo, sono nate tantissime iniziative per far entrare in contatto le persone con la flora che abita tra palazzi, parchi e boschi cittadini: nel nostro paese tra le più attive c’è Linaria, associazione romana nata nel 2011 che dal 2013 ha lanciato Frutta Urbana il “primo progetto italiano sulla mappatura, la raccolta e la distribuzione della frutta in città e sulla realizzazione di nuovi frutteti”.

Foraging e normativa in Italia
Il foraging nel corso degli ultimi anni ha subito un interesse sempre più crescente, con il bisogno di dotarsi di normative ad hoc, in quanto è un’attività sia amatoriale, sia professionale. In Italia, ci spiega Caterina Cardia, micologia, guida botanica e wild food chef consultant, tra i soci fondatori dell’AIF (Associazione Italiana di Fitoalimurgia), la pratica si scontra ancora con una legislazione complessa e a tratti inapplicata, definendo il tempo attuale come un “momento di stasi normativa”.
Il ministero dell'Agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste inquadra le piante selvatiche all'interno della categoria delle piante officinali, con un decreto del 2022 che ha tentato di mettere ordine nel settore, regolamentando la coltivazione, la raccolta e la vendita delle piante spontanee dopo un periodo di “oblio” di 70 anni, visto che la legge precedente risaliva agli anni ‘30. Le erbe selvatiche vengono quindi commercializzate come prodotti ortofrutticoli se le si utilizza nell’ambito alimentare, mentre se lo scopo è quello terapeutico si applica anche un’altra direttiva, riferita agli erboristi e ai fitopreparatori.
Chi può raccogliere le piante? Se è a uso personale tutti possono cimentarsi, mentre se l’obiettivo è la vendita allora sarebbe obbligatorio un patentino, che viene rilasciato solo dopo un’adeguata formazione come da decreto: “Ad applicarlo è senza dubbio il Trentino Alto-Adige, regione pioniera a tal proposito – dice Cardia – visto che le erbe selvatiche fanno parte integrante della sua economia”. Inoltre, tutti “devono tenere conto di una lista rossa di protezione della flora spontanea: ci sono elenchi nazionali e regionali, ed è bene confrontarsi con gli uffici locali del MASAF”.

Foraging, sostenibilità e pericoli per la salute
“La pratica è sana e per me la diffusione del trend è positiva”, precisa Cardia. Quali sono i pro? “Spinge a usare delle piante che hanno un altissimo valore fitoterapico, fa riprendere coscienza e conoscenza di un patrimonio culturale del nostro paese, quello della raccolta delle erbe spontanee e del loro uso in cucina, perché una volta erano una vera e propria fonte di salvezza”. Quali sono i lati negativi? “Le piante sono tante e bisogna sapere quali raccogliere, perché ci sono specie invasive e specie a rischio di estinzione: per esempio, l’Erigeron canadensis è una pianta annuale infestante, ma commestibile, e quindi andrebbe mangiata (un po’ come fatto con il granchio blu), anche se non appartiene alla nostra consuetudine gastronomica, mentre si dovrebbe evitare il raperonzolo (Campanula rapunculus) che invece è richiestissimo per la sua radice dall’ottimo sapore, ma estirpandola si toglie alla pianta la possibilità di proliferare”. Vietato, inoltre, sottovalutare i potenziali pericoli per la salute: “proprio come non ci si improvvisa raccoglitori di funghi, non bisognerebbe neppure farlo in questo frangente. Non sono rari i casi di persone che muoiono perché ingeriscono il colchidum, velenosissimo anche a basso dosaggio, in quanto confuso con lo zafferano selvatico e con l’aglio orsino, quest’ultimo un ingrediente molto impiegato per fare il pesto in casa”.