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23 Ottobre 2025 9:00

Chandler, Lara, Fernor: le noci che hanno soppiantato le varietà autoctone italiane

Dalle colline di Sorrento alle pianure emiliane, le noci italiane hanno ceduto il passo a varietà straniere come Chandler, Lara e Fernor, simboli di un’agricoltura più produttiva ma anche più uniforme. Oggi, tra innovazione e memoria, si prova a salvare un patrimonio di biodiversità e di gusto che rischia di scomparire.

A cura di Francesca Fiore
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Per secoli, la noce italiana è stata una piccola gloria della nostra agricoltura. Dalle colline campane alle valli trentine, ogni famiglia aveva almeno un albero di noce: simbolo di abbondanza, ombra e legno prezioso.
Le varietà autoctone come la Noce di Sorrento, la Malizia o la Bleggiana erano il frutto di una selezione naturale, adattata ai microclimi locali. I loro frutti, profumati e aromatici, avevano un gusto che raccontava il territorio.

Ma con il tempo, questo patrimonio ha iniziato a perdere terreno. Oggi, entrando in un noceto moderno, i nomi suonano diversi: Chandler, Lara, Fernor. Le varietà straniere hanno preso il posto delle nostre: perché e quando è avvenuto questo cambiamento?

Dalle colline di Sorrento alla California

Fino agli anni Ottanta, le noci italiane provenivano soprattutto da impianti familiari o tradizionali. Le varietà locali avevano molte virtù, ma non erano fatte per la modernità: maturavano in modo irregolare, producevano meno e non permettevano una raccolta meccanizzata.

Nel frattempo, negli Stati Uniti e in Francia, la nocicoltura stava cambiando volto. Le università californiane sviluppavano varietà pensate per l’agricoltura intensiva: Chandler e Howard, alberi produttivi e compatti, capaci di offrire frutti grandi, chiari e omogenei. Anche i francesi lavoravano su ibridi come Lara e Fernor, che univano produttività e resistenza al freddo.

Quando queste varietà arrivarono in Italia, trovarono un terreno pronto: un settore in cerca di innovazione, un mercato in crescita e produttori desiderosi di competere con la concorrenza estera.

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Le noci Chandler

La rivoluzione silenziosa dei noceti italiani

Tra la fine degli anni Novanta e i primi Duemila, la rivoluzione varietale era ormai in atto. La noce Chandler, con la sua produttività impressionante e i frutti perfettamente calibrati, conquistò rapidamente le pianure dell’Emilia-Romagna, del Veneto e persino alcune zone del Sud. La Lara, precoce e affidabile, si diffuse nei noceti del Centro Italia, mentre la Fernor, resistente alle gelate, divenne la preferita nelle aree più fredde del Nord.

In pochi decenni, queste varietà “straniere” cambiarono completamente il panorama della nocicoltura nazionale. Oggi rappresentano la quasi totalità dei nuovi impianti, mentre le varietà italiane sopravvivono solo in piccoli appezzamenti, spesso curati da agricoltori che puntano sulla qualità più che sulla quantità.

Le nostre noci: un’eredità in via di estinzione

Le varietà autoctone non sono scomparse, ma vivono ai margini. La Noce di Sorrento continua a essere coltivata in Campania, dove resta un simbolo di eccellenza gastronomica: dolce, chiara, con un aroma unico. È in corso il riconoscimento dell’Indicazione geografica protetta, segno che qualcosa, forse, sta cambiando. In Trentino e in Veneto, alcuni agricoltori resistono con la Bleggiana, recuperata come presidio di biodiversità e come prodotto di nicchia. Ma rispetto alla vastità dei noceti moderni, queste esperienze sono isole.

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Dietro la scomparsa delle varietà italiane non c’è soltanto un calcolo economico, ma anche un cambiamento culturale. La globalizzazione ha spinto l’agricoltura verso la standardizzazione: frutti perfetti, di dimensione uniforme, facili da lavorare e da vendere. Le nostre noci, con le loro forme irregolari e i sapori intensi, si sono trovate fuori moda.

Cosa abbiamo guadagnato e cosa abbiamo perso

Da un punto di vista produttivo, la rivoluzione ha funzionato. L’Italia oggi è tornata tra i principali produttori europei di noci grazie a impianti moderni e varietà ad alta resa. Ma qualcosa si è perso lungo la strada.

Le nuove noci sono perfette, ma spesso anonime, perché manca quell’identità che un tempo bastava assaggiare per riconoscere la provenienza: il profumo lattiginoso delle noci di Sorrento, la nota tostata delle noci feltrine, la rusticità delle noci di montagna.

Negli ultimi anni, comunque, qualcosa si sta muovendo: alcuni progetti di ricerca e di filiera stanno cercando di recuperare le varietà locali non solo per ragioni culturali, ma anche ambientali. Le noci autoctone, più adattate ai microclimi italiani, spesso richiedono meno acqua e trattamenti, e potrebbero offrire un vantaggio prezioso in un contesto di cambiamento climatico.

La biodiversità non è solo un valore sentimentale: è una risorsa. Riscoprire le vecchie varietà — magari affiancandole a quelle moderne — significa costruire un’agricoltura più resiliente e più riconoscibile. Le Chandler e le Lara hanno portato efficienza e competitività, ma non potranno mai sostituire completamente il legame affettivo e sensoriale che lega le persone a un frutto del proprio territorio.

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