
Se c'è una ricorrenza che più di tutte rappresenta la cultura americana, quella è senza dubbio il Thanksgiving Day, ovvero il Giorno del Ringraziamento. Intere tavolate con tutta (ma proprio tutta) la famiglia presente: c'è addirittura chi vola da uno Stato all'altro solo per potersi ricongiungere con i propri cari e festeggiare insieme. Il protagonista è l'indiscusso tacchino ripieno che fa da star a tutto il cibo presente a tavola tra patate dolci, tortini di zucca, salse di mirtilli e dessert in abbondanza. Parliamo non solo di un rito gastronomico e di un ricordo storico legato alle origini degli Stati Uniti, ma anche della miccia che accende la più grande stagione di consumi dell'anno.
Fare ordine nel mito: com’è nata davvero la festa
Prima ancora di capire il reale senso di questa ricorrenza, e dei conseguenti eccessi e controversie che essa comporta, bisogna un attimo tornare indietro di parecchi anni, alle origini della cultura americana. Il Thanksgiving affonda le sue radici in un banchetto del 1621, a Plymouth nel Massachussets. Un anno prima, i Padri Pellegrini (Pilgrim Fathers), coloni inglesi perseguitati in patria per la loro adesione a un cristianesimo rigorosamente calvinista, decisero di abbandonare l'Inghilterra alla volta del Nuovo Mondo, l'attuale Nord America.
Si imbarcarono sulla Mayflower fino ad arrivare sulle coste americane dopo una difficoltosa traversata oceanica. Quando arrivarono, con l'inverno ormai alle porte, si trovarono di fronte a un territorio fino ad allora abitato solo da nativi americani. Dopo essere sbarcati, sopravvissero a un duro inverno solo grazie all'aiuto agricolo degli indigeni della tribù Wampanoag insegnandogli a coltivare mais, zucche e granoturco (alimenti più favorevoli per quei climi) e ad allevare alcuni animali come i tacchini.

Dopo le fatiche dei primi mesi, i Pellegrini decisero di dedicare un giorno al ringraziamento per l’abbondanza ottenuta e per celebrare il successo del loro primo raccolto. Invitarono anche gli indigeni, che li avevano aiutati ad affrontare le difficoltà iniziali e a conoscere la nuova terra. Quel banchetto voleva essere il segno di un futuro più promettente, costruito su collaborazione e speranza.
La cultura popolare americana ha reso questo "evento" come un caposaldo della fondazione del Paese tanto da essere narrato, spiegato e studiato anche sui libri. Ma la narrazione scolastica sorvola un fatto decisivo: i Wampanoag avevano già tradizioni di ringraziamento legate ai cicli naturali e ciò avvenne dopo quel primo incontro che fu tutt'altro che armonioso.

Quella prima festa conviviale in realtà non fu l'inizio di una storia idilliaca in cui nativi e colonizzatori vissero insieme felici e contenti: fu l'esatto opposto. Le malattie portate dai coloni, i conflitti e la progressiva e violenta espropriazione dei nativi dalle proprie terre dipingono un quanto complesso, una brutta pagina di storia che è ben lontana dall'immagine "disneyana" diffusa per secoli. Gli americani sono ben consapevoli di tutto ciò, ma spesso e volentieri il focus si sposta su tematiche totalmente differenti.
Il "vero" Thankgiving inteso come festa nazionale
Nel 1846 la scrittrice e attivista antischiavista Sarah Josepha Hale, avviò una lunga campagna per trasformare il Thanksgiving in una festa nazionale. Era convinta che un giorno dedicato alla gratitudine potesse unire un Paese diviso. Il primo presidente ad accogliere le richieste fu Abramo Lincoln che, nel 1863, in piena Guerra Civile, vide in questa festività un gesto simbolico di riconciliazione.

Fu proprio qui che quel banchetto del 1621 di cui abbiamo parlato precedentemente, entrò stabilmente nella memoria di tutti gli americani. Nel 1939 il presidente Franklin D. Roosevelt spostò la data della festa per allungare la stagione degli acquisti natalizi e nel 1941, il Congresso fissò definitivamente il giorno della celebrazione al quarto giovedì di novembre.
Il lato controverso della ricorrenza: consumi, sprechi e Black Friday
Come dicevamo all'inizio, la vera stella del Thanksgiving è il tacchino: enorme, ripieno, cucinato per ore e servito come un trofeo domestico per tutta la famiglia. A fare da contorno un'immensa quantità di cibo che sta a simboleggiare la celebrazione della terra, del raccolto e dell‘abbondanza. È proprio su quest'ultima parola che si abbattono le controversie: molte famiglie preparano più di quanto cibo si possa realmente consumare e, ogni anno, secondo diverse stime ambientali, milioni di chili di carne di tacchino finiscono nella spazzatura. Il Thanksgiving, nato come ringraziamento per il raccolto, si è trasformato anche in una festa di eccessi gastronomici: enorme produzione alimentare, altrettanto enorme spreco.

Non appena sparecchiata la tavola, prende piede un'altra tradizione che anche in Italia ormai conosciamo alla perfezione: quella dello shopping compulsivo con il Black Friday. Questa è infatti la data della stagione che segna l'inizio degli acquisti natalizi. Code interminabili fuori dai negozi fin dall'alba, marketing aggressivo, caccia compulsiva all'ultimo elettrodomestico a prezzo ribassato. Molti le definiscono come le Thanksgiving Weeks Sales: settimane di sconti che a volte precedono anche la festa e che trasformano i mesi di novembre e dicembre nel consumismo più puro e totale. Il paradosso è evidente: una festa che dovrebbe celebrare gratitudine, equilibrio e condivisione si trova connessa al suo opposto, cioè un meccanismo economico che spinge all’acquisto massivo e continuo.
Nonostante il suo status nazionale c'è però anche chi non vive il Thanksgiving allo stesso modo degli altri. Per molte comunità native, infatti, coincide con il National Day of Mourning, una giornata di cordoglio che ricorda le violenze, le epidemie e la perdita di territori seguite all’arrivo dei coloni. Per loro non è un simbolo di gratitudine condivisa, ma l’inizio di una lunga storia di ingiustizie.