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C’è un momento, nelle campagne siciliane, in cui l’aria si fa densa di profumi: non è solo il grano maturo, né il fieno che riposa al sole, ma qualcosa di più sottile e insieme carnale. Si tratta di un’aroma che sa di miele, di erba calda e zucchero: è il tempo delle sbergie, frutti carnosi e dimenticati, che sbocciano tra la fine di giugno e l'inizio di luglio come piccoli segreti estivi. Le trovi lì, tra i muretti a secco e i filari polverosi, sulle bancarelle dei mercatini rurali, spesso indicate con nomi diversi: sbergia, spergia, a volte confuse con pesche e nettarine. Ma chi le conosce, chi le ha assaggiate almeno una volta, non le confonde più.
Un frutto, mille identità
La sbergia non è un frutto qualunque. È una di quelle cose che raccontano una terra meglio di mille parole: il sole che brucia, la fatica contadina, l’amore per ciò che cresce piano. È il simbolo di una Sicilia che non si vende al primo supermercato, ma che resiste tra le mani di chi la coltiva con rispetto.
La sbergia siciliana è una varietà di pesca (Prunus persica) coltivata principalmente nella parte orientale dell’isola, tra Caltagirone, Ramacca e la piana di Catania. Rispetto alla pesca comune, la sbergia si distingue per la sua buccia sottile, liscia e vellutata, il colore giallo-verde con sfumature rosate e, soprattutto, una polpa succosa e intensamente profumata. È più compatta, meno acquosa, con un sapore pieno e persistente che ricorda quello dei frutti antichi. È molto simile alla pesca merendella, ma anche alla pesca noce, a cui viene sovrapposta in alcune zone della Calabria.
In molte zone dell’isola la sbergia è parte della memoria collettiva: i contadini la raccoglievano all’alba, quando la polpa era ancora tesa e fredda di rugiada, e la portavano a casa avvolta nei fazzoletti, come si fa con le cose preziose. Era il frutto dell’estate, quello che si mangiava seduti sul gradino, con il succo che scendeva sulle dita e il sole che batteva forte sulla nuca.

Un frutto dimenticato (ma non per sempre)
Per anni la sbergia è rimasta fuori dai grandi circuiti della distribuzione: troppo delicata per resistere ai lunghi viaggi, troppo particolare per essere standardizzata. Ma negli ultimi tempi sta vivendo una piccola rinascita, grazie al lavoro di produttori locali che ne hanno riscoperto il valore e l’hanno restituita al mercato con orgoglio.
Si tratta di un frutto a chilometro zero, che racconta il territorio in ogni morso: ci sono aziende agricole la coltivano ancora secondo i ritmi tradizionali, senza trattamenti chimici, e la raccolgono esclusivamente a mano. Alcuni chef dell’isola la stanno riportando nei menu estivi, usandola in piatti dolci ma anche in abbinamenti salati – sorprendente, ad esempio, con un caprino fresco o una tartare di tonno.

Come gustarla al meglio
La sbergia va mangiata fresca, quando è ancora tesa al tatto ma cede leggermente sotto le dita. Va tenuta lontano dal frigorifero, che ne ucciderebbe il profumo, e va assaporata senza fretta. È perfetta anche per fare marmellate, composte o crostate rustiche, ma la sua anima si esprime al meglio cruda, magari tagliata a spicchi su un letto di ricotta di pecora o accanto a una fetta di pane con olio extravergine e sale grosso.
Un abbinamento da provare? Sbergia, pecorino stagionato e miele d’arancio: un’esplosione di sapori che parla siciliano senza bisogno di traduzioni.