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26 Novembre 2025 12:13

Il pomodoro italiano è sotto accusa: perché l’Australia parla di concorrenza sleale e di “dumping”

Un nuovo fronte si apre sul Made in Italy: dopo le tensioni sulla pasta, anche il pomodoro finisce al centro di un caso internazionale che parte dall’Australia.

A cura di Enrico Esente
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Da sempre considerato un'eccellenza mondiale, nonché uno dei simboli della nostra filiera agroalimentare, il pomodoro italiano è finito nel mirino del governo australiano. L'Anti-Dumping Commission, infatti, ha recentemente aperto un'indagine formale sul prodotto Made in Italy.

Per capire bene cosa è successo bisogna ritornare indietro a poco più di un mese fa, quando anche la pasta fu accusata di concorrenza sleale e "dumping". Dall'inglese questo termine indica ciò che viene "scaricato" o "smaltito", quindi genericamente collegato alla spazzatura. In gergo tecnico/economico, però, il dumping è un'esportazione di merci a prezzi molto più bassi di quelli che si possono trovare sul mercato interno. Lo scopo? Semplicemente impadronirsi dei mercati esteri esportando prodotti forse addirittura sottocosto. Insomma, così come era accaduto per la pasta, adesso anche il pomodoro nostrano è sotto accusa per dumping con il rischio di ulteriori dazi: cerchiamo di capire bene cosa sta succedendo.

Qual è l'origine dell'accusa australiana

Come abbiamo accennato precedentemente, l'iniziativa è partita dall'organo di regolamentazione anti-dumping australiano che ha da poco concluso un'indagine avviata in seguito a una denuncia pervenuta poco più di un anno fa. Stiamo parlando di un allarme lanciato dalla SPC Operations Pty Ltd, un colosso del settore alimentare australiano, che ha accusato le esportazioni italiane di aver applicato prezzi inferiori al "normale valore" e di aver beneficiato di sussidi, causando così grossi danni all'industria locale. 

L'indagine riguarda pomodori interi, conserve e pezzettoni (in confezione fino a 1,14 litri), escludendo quindi passate, salse, succhi o concentrati. Sono tre le aziende italiane finite sotto la lente d'ingrandimento del governo di Canberra: Mutti, Imca e De Clemente che, secondo l'inchiesta, avevano scaricato (dumped) prodotti sul territorio australiano per circa 12 mesi, commercializzandoli a prezzi "irrisori" rispetto a quelli locali.

Si parla di lattine di 400 grammi di pomodori italiani venduti (con il proprio marchio) a 1,10 dollari australiani (0,60 centesimi in euro), mentre il produttore locale (nello specifico Ardmona di SPC) vendeva la stessa latta a 2,10 dollari, praticamente il doppio. In questo modo la Commissione che ha indagato sul fatto ha prontamente accusato l'Italia di minare significativamente i prezzi dell'industria australiana e di creare, per ovvie ragione, ingenti danni sul mercato.

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Nonostante tutte le indagini svolte, però, la Commissione non è riuscita a dimostrare danni così gravi subiti da parte del settore del pomodoro australiano. Un fatto sicuro è che SPC abbia perso vendite, quote di mercato e margine dei prezzi, ma non ha potuto misurare con precisione quanto queste perdite incidessero nel complesso. In altre parole, le importazioni italiane hanno sicuramente avuto un "impatto" economico ma non sono state la causa di ingenti danni materiali. Robert Iervasi, direttore generale di SPC, ha accolto la questione con evidente frustrazione, ribadendo che è giusto e doveroso garantire condizioni di concorrenza realmente eque per produttori e agricoltori australiani.

Il dibattito in Italia: la difesa del Made in Italy

La notizia dell'indagine svolta in Australia ha creato sicuramente scompiglio nel settore conserviero italiano, già sensibile alle dinamiche di prezzo e concorrenza. C'è però una sorta di posizione "difensiva" assunta dall'Italia. I produttori del nostro Paese infatti beneficiano di una produzione oltre cinque volte superiore: parliamo infatti di 5,3 miliardi di tonnellate di pomodori contro le 438 mila tonnellate dell'Australia. Stesso chi ha svolto l'indagine ha quindi spiegato che questo è chiaramente un vantaggio per i produttori italiani che possono tranquillamente permettersi di esportare e vendere prodotti a prezzi più bassi.

L'altra faccia della medaglia: il pomodoro cinese in Italia

Parallelamente al caso australiano, c'è anche la questione relativa al pomodoro cinese. In sostanza parliamo di una polemica esplosa nell'autunno del 2024, quando Francesco Mutti, amministratore delegato dell'azienda omonima, aveva denunciato pubblicamente la "concorrenza sleale" delle importazioni dalla Cina. Mutti aveva chiesto all'Ue di imporre misure drastiche: dazi elevati fino al 60% o persino il blocco delle importazioni provenienti da Pechino. Il motivo era una preoccupazione, così come accaduto per l'Australia, di essere travolti dal prodotto proveniente dalle imprese statali dello Xinjiang. 

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Intanto dal Masaf (Ministero dell'agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste) il ministro Francesco Lollobrigida ha detto stop alla concorrenza sleale. Secondo gli ultimi dati, infatti, l'export del concentrato di pomodoro dalla Cina all'Italia è diminuito del 76% nell'ultimo trimestre del 2025. "Questo calo – spiega il ministro – collegato anche alle forti preoccupazioni emerse in passato sul lavoro forzato nella regione dello Xinjiang e sulle pratiche opache di etichettatura, rappresenta un segnale molto importante per la nostra agricoltura". Insomma, da parte del governo, il ministro Francesco Lollobrigida ha rilanciato l’urgenza di una normativa più stringente sull’etichettatura d’origine e di controlli doganali, sottolineando che non si tratta di una battaglia protezionista, ma di equità e trasparenza per tutelare la filiera nazionale.

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