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Il cous cous non si trova solo nei mercati di Tunisi o nelle cucine di Marrakech: lo si incontra anche nei vicoli di Marsiglia, nei ristoranti di Milano, nei mercati di Bruxelles. È il piatto che ha viaggiato insieme alle persone, trasformandosi in simbolo di memoria e di incontro. Ogni volta che attraversa un confine, cambia volto: si mescola con ingredienti locali, si adatta ai gusti delle nuove generazioni, diventa persino piatto “nazionale” in Paesi che non lo hanno visto nascere.
Oggi non ti racconteremo la storia del cous cous, ma il suo presente in movimento: come le migrazioni lo hanno portato lontano dai luoghi d’origine, come si è reinventato in forme nuove e sorprendenti, come continua a unire comunità diverse attorno a un grande piatto condiviso.
Varianti globali di un piatto migrante
Quando si parte, non sempre si può portare con sé una pentola o una spezia, ma i gesti della cucina restano. Per molte famiglie migranti, il cous cous rappresenta la continuità con la propria storia: impastare la semola, cuocerla lentamente, servire il piatto al centro della tavola. Un rito che diventa ancora più importante lontano da casa, perché racchiude il sapore dell’infanzia e l’identità delle radici.
Se in Nord Africa il cous cous tradizionale si accompagna a stufati di carne e verdure, altrove il piatto si è adattato a nuove abitudini alimentari. In Francia, il cous cous è ormai considerato “piatto nazionale non ufficiale”: ricerche gastronomiche lo collocano stabilmente tra le pietanze più amate dai francesi, soprattutto nelle aree metropolitane. È comune trovarlo servito nelle mense scolastiche o nei ristoranti come alternativa leggera al riso. In Italia, l’influenza delle comunità tunisine ha reso celebre il cous cous di pesce siciliano, oggi considerato quasi un piatto autoctono. In Brasile, soprattutto nello Stato di São Paulo, esiste una variante chiamata cuscuz paulista, cotto al vapore in stampi e arricchito con verdure, uova e tonno. In Israele, invece, la diaspora maghrebina ha portato a una versione con condimenti speziati e più brodosi, spesso serviti nelle feste familiari.

Nei contesti urbani europei, il cous cous è diventato anche un piatto “da pausa pranzo”: veloce, nutriente e facilmente personalizzabile. Questa capacità di adattarsi ai contesti più diversi conferma la natura dinamica del cous cous, che continua a reinventarsi senza perdere la sua identità di cibo conviviale.
Cucine che si intrecciano
Il cous cous viaggia, ma non rimane mai uguale a sé stesso. Nelle periferie europee prende il sapore delle verdure stagionali trovate al mercato; nei ristoranti fusion si accompagna a ingredienti inconsueti, dal sushi al ceviche. Alcune mense sociali lo usano come piatto conviviale per favorire l’incontro tra migranti e cittadini: un grande piatto condiviso che diventa occasione per parlare, conoscersi e sentirsi parte della stessa comunità. Questa capacità di trasformarsi lo rende un perfetto mediatore culturale: non impone, ma accoglie; non divide, ma mescola. E nel farlo racconta quanto la migrazione non sia soltanto spostamento di persone, ma anche di sapori, tradizioni e modi di stare insieme.

Tradizionalmente, il cous cous si mangia con le mani, attingendo tutti dallo stesso grande piatto. È un gesto che rafforza l’idea di comunità: nessuno ha la propria porzione, ma tutti condividono lo stesso cibo e lo stesso momento. Con la migrazione, però, questo rito si è adattato: nelle case e nei ristoranti europei, il cous cous viene servito in piatti individuali e consumato con forchetta o cucchiaio, più in linea con le abitudini locali. Il gesto della condivisione cambia forma, ma resta nella sostanza: che sia con le mani o con le posate, il cous cous continua a essere un cibo che invita a stare insieme.

Le celebrazioni locali
Festival come quello di San Vito Lo Capo, in Sicilia, hanno contribuito a consacrare il cous cous come piatto universale, in grado di unire Paesi, chef e tradizioni diverse attorno a un unico ingrediente. È la prova che un cibo nato come piatto “della memoria” può diventare linguaggio globale.
Il cous cous, insomma, continua a muoversi. Non è solo la storia di chi lascia la propria terra, ma anche di chi accoglie e si lascia contaminare. In ogni granello di semola c’è il racconto di un viaggio: personale, collettivo, gastronomico.