In un distretto più noto per le fabbriche tessili e di motori (la Vespa), tra Prato, Pisa e Pistoia si può compiere un itinerario molto goloso alla scoperta dell'arte della lavorazione del cacao. Qui, abbiamo fatto una tappa speciale in quel di Ponsacco.
Se Willy Wonka fosse nato in Italia, probabilmente sarebbe toscano. Il motivo? Forse non tutti sanno che (nemmeno i più golosi) in Toscana – precisamente nell’area tra Pisa, Pistoia e Prato – sorgono alcune delle aziende cioccolatiere più rinomate d’Italia, dove a spiccare sono le produzioni artigianali. Ci troviamo, infatti, in quella che viene definita una vera e propria Chocolate Valley, con una tradizione che prosegue dai tempi dei Medici, i famosi signori di Firenze conosciuti non solo per il mecenatismo artistico, ma anche per le loro passioni culinarie, tra cui quella di sorseggiare fumanti tazze di cioccolata calda. Oltre alle più note Piemonte (basta dire Gianduiotto) e Sicilia (che fa rima con cioccolato di Modica Igp), andiamo alla scoperta di un’altra regione e delle sue eccellenze.
Prima dell'arrivo nelle Americhe da parte di Cristoforo Colombo, in Europa l’esistenza del cacao era sconosciuta. Nonostante il navigatore lo avesse assaggiato, la diffusione nel Vecchio Continente avvenne per merito dello spagnolo Hernán Cortés, che incontrò in Messico nel 1519 l’imperatore azteco Montezuma: come offerta di benvenuto ebbe il “cibo degli Dei” sotto forma di bevanda. I semi di cacao, così, approdarono in Spagna, in Francia e anche in Italia, dove la storia vuole che a portarli alla corte medicea sia stato il mercante fiorentino Francesco Carletti (1573-1636) all’inizio del ‘600: nel corso del secolo, in città inizia una prima produzione, con l’istituzione di laboratori di sperimentazione ad hoc.
A essere particolarmente appassionata di cacao, infatti, fu tutta la dinastia, partendo da Cosimo III de' Medici. A passare alla memoria dei posteri è il medico del Granduca (ma anche grande letterato e scienziato) Francesco Redi (1626-1697), che mise a punto svariate ricette innovative: la più celebre è quella del cioccolatte al gelsomino, datata 1680, una cioccolata in tazza caratterizzata da un aroma intenso e avvolgente del fiore. La sua preparazione fu custodita tanto gelosamente da essere classificata come segreto di stato, svelata solo nel 1712.
Facendo un balzo temporale di un paio di secoli, il nome di riferimento per l’artigianalità del cioccolato toscano contemporaneo, sviluppatosi tra gli anni ‘80 e ‘90 nel distretto tra Pisa, Pistoia e Prato, è stato quello di Roberto Catinari (scomparso nel 2021) noto come il “re del cioccolato” e maestro di fama mondiale formatosi in Svizzera, che nel 1974 nel piccolo comune natio di Bardalone apre il primo laboratorio, per poi trasferirsi ad Agliana nel 1982: nel suo negozio è arrivato a confezionare più di centotrenta praline di sua invenzione.Oltre al pioniere Catinari, altri protagonisti sono, per esempio, Torrefazione Trinci, attiva a Cascine di Buti (Pisa), Slitti a Monsummano Terme (Pistoia), Pasticceria Mannori a Prato e Amedei a Pontedera (Pisa).
Proprio quest’ultima ha a che vedere (o meglio, aveva) con Alessio Tessieri, uno dei più grandi esperti di cioccolato in Italia, che la fondò nel 1990 con la sorella Cecilia, prima di separarsi e di dare vita nel 2015 a una nuova azienda dal nome Noalya e nel 2018 a una prestigiosa scuola di cucina e pasticceria, la Scuola Tessieri, a Ponsacco (Pisa). L’obiettivo è quello di produrre cioccolati destinati sia al pubblico sia all’industria dolciaria che siano, oltre che di alta qualità, anche sostenibili ed etici. Il cacao, infatti, continua a fare sempre un lungo viaggio, visto che arriva chiuso in sacchi di iuta da piantagioni di proprietà in Venezuela, della pregiata varietà monorigine Criollo, ma anche da tutto il mondo, dal Vietnam al Brasile, passando per Tanzania e Madagascar: i terreni non derivano da alcuna deforestazione, anticipando le norme di un Regolamento Europeo che si applicherà a partire dal gennaio 2026.
Visitare la fabbrica significa vedere i risultati di più di 30 anni di ricerca sul campo: non è un caso, infatti, che i macchinari (in particolare quelli destinati alla tostatura) non si possano fotografare, in quanto brevetti da preservare. Come spiega l'imprenditore, si tratta di “due macchine che hanno 70-80 anni, una comprata in Germania e una in Svizzera: erano completamente distrutte e ci sono voluti 2 anni e mezzo per metterle a posto”.