
La birra artigianale italiana è da tempo in rampa di lancio grazie a un fenomeno chiamato Craft Revolution. Tante persone del nostro Paese amano la birra e, negli ultimi periodi, quella artigianale sta prendendo il sopravvento. In questo vasto panorama si sta facendo largo un prodotto tutto nostro: l'Italian Grape Ale – IGA – ossia una birra che "osa" mescolare il linguaggio ancestrale della vite con la spontaneità del malto. Una bevanda che ha sfidato le definizioni (a metà tra birra e vino), che ha attraversato contorti sentieri normativi e che ha fatto discutere come poche altre. Vediamo di che si tratta.
Italia Grape Ale, cos'è la birra d'uva
Unire l'uva alla birra non è una cosa banale. La prima risale al 2006 grazie al birrificio sardo Barley con il mastro birraio Nicola Perra che gettò le basi per il cambiamento. Nacque la BB10, una Imperial Stout impreziosita dalla sapa, ossia mosto cotto, di uva Cannonau. Quella fu la prima base dell'Italian Grape Ale con la birreria Barley che, tra il 2008 e il 2012, arricchì la gamma con nuovi prodotti: BB Evò, BB9 e BB Boom. Nel 2015 la Iga entra nella guida stili BJCP (Beer Judge Certification Program), collocata tra gli stili puramente italiani. Quello non era un riconoscimento canonico ma un punto di svolta: la birra con l'uva diventa un'idea apprezzata e condivisa.

Quando parliamo di Iga, facciamo riferimento a birre ad alta fermentazione nelle quali entra, in varie forme: mosto d'uva, vinaccia, uva cotta e mosto fermentato. Questo conferisce una gamma olfattiva e gustativa molto ampia costituita con un profilo aromatico in cui si percepiscono note di pesca, albicocca, mela e agrumi. Visivamente la birra può variare da un bel giallo dorato, nelle versioni con uva bianca, fino al marrone scuro per le versioni con uva scura. Come dicono i vari esperti di birra, le Iga risultano spesso "beverine", ossia piacevoli da bere, grazie alla freschezza e all'acidità naturale dell'uva che giocano un ruolo centrale.
Le controversie dell'etichetta: grape diventa una dicitura pericolosa
Bisogna menzionare anche quanto è avvenuto diversi mesi fa in campo legale. L'uso di termini come "grape" o "mosto di vino" può rischiare di essere interpretato come un richiamo al vino più che a una birra, esponendo i birrifici a contestazioni, multe e sequestri. Per diversi mesi, molti produttori hanno evitato di scrivere sulle proprie etichette "Italian Grape Ale"per non correre rischi legali.

Recentemente due sentenze favorevoli hanno dato respiro ai birrifici. Il Tribunale civile e penale di Bologna ha riconosciuto la correttezza della comunicazione in etichetta e in forma digitale, affermando che non vi è intento fuorviante ma trasparenza verso il consumatore. Il supporto di Unionbirrai, associazione di categoria, è stato cruciale: le vittorie legali dimostrano quanto sia urgente e necessario un quadro normativo chiaro che eviti ambiguità e contenziosi.
In sostanza: la giustizia ha concesso alle Iga di usare il proprio nome, ma il problema non è ancora chiuso. Serve una legge che riconosca esplicitamente la specificità di queste birre ibride, liberandole da zone grigie legali.
Verso nuovi confini: innovazione, territorio e sperimentazione
Gli esperti affermano che la Iga non è un fenomeno isolato: è un segno dei tempi. È l'espressione più audace dell‘artigianato birrario italiano che non si accontenta di imitare stili esteri, ma cerca un'identità propria. Le interpretazioni nascono da collaborazioni con birrifici in Danimarca, Inghilterra, Germania, Olanda e Irlanda, dimostrando che l’Iga può essere anche ponte internazionale. Una birra che diventa così terreno di sperimentazione territoriale: ogni vitigno, ogni zona, ogni vendemmia aggiungono un carattere inedito.