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9 Marzo 2020 11:00

Chef Hiro si racconta: l’amore per la cacio e pepe, la sua visione del Giappone in Italia

Hirohiko Shoda, noto come Chef Hiro, ha conquistato gli italiani con la sua genuinità. Grande cuoco giapponese, a 23 anni guidava già 200 cuochi e in Italia ha lavorato 8 anni alle Calandre con Massimiliano Alajmo. Ad ottobre è uscito il suo ultimo libro, "Whashoku, l'arte della cucina giapponese", divenuto già un best seller nell'editoria enogastronomica.

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Foto di Alberto Blasetti

Le maglie con una versione di se stesso a cartone animato, i pupazzetti di Doraemon e i Maneki neko in cucina, quell’accento così forte. Questo e molto altro fa parte dello starter pack di Hirohiko Shoda, uno stile che ha fatto breccia nel cuore degli italiani rendendo chef Hiro uno degli cuochi più amati della Tv.

Che sia "La prova del cuoco" o il "Gambero Rosso Channel", poco importa perché l’Hiro Style è riconoscibilissimo, com’è riconoscibile la sua perfetta sintesi di cucina giapponese e mediterranea. In un periodo in cui tutto l’Occidente andava in Giappone per formarsi con la grande cucina tradizionale nipponica, Hiro, in controtendenza, ha preso in mano la propria vita e coronato un suo sogno, quello di venire in Europa: “Avevo 18 anni, fui così affascinato dalla nuova cucina giapponese, contaminata da tante culture antiche e diverse come quelle italiane, spagnole, francesi e arabe, che decisi di lasciare la scuola di musica per frequentare la scuola cucina, specializzandomi proprio in cucina italiana” – ci dice lo chef Hiro – “non mi sono più fermato da allora, lavorando per oltre 10 anni nell'alta ristorazione di cucina italiana in Giappone. Il mio più grande desiderio era però quello di conoscere esattamente la terra di origine degli ingredienti che amavo, cercarli e sceglierli personalmente, poter vivere e concretizzare la mia cucina laddove realmente nasce. E così, dopo una prima esperienza nel 2003 in Italia, a Napoli, nel 2006 mi sono trasferito stabilmente a Padova lavorando per circa 8 anni presso Le Calandre di Padova, ristorante Tre Stelle Michelin”.

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Stare otto anni insieme a Massimiliano Alajmo in un tristellato non è da tutti, ma la carriera di Hiro non comincia con il cuoco veneto perché “Prima di partire per l’Italia ero già capo chef di quattro importanti ristoranti di alta cucina italiana ad Osaka e gestivo uno staff di 200 cuochi”. La scelta coraggiosa di abbandonare una vita sicura in patria per un’avventura nel Bel Paese è figlia del carattere e della curiosità di chef Hiro: “Volevo scoprire da vicino quel Paese che tanto mi affascinava, l’Italia. Ho lasciato una carriera molto ben avviata e un ottimo successo professionale in Giappone per il desiderio di vivere, di cambiare, di sperimentare, di conoscere. La curiosità è una grande risorsa che mette in discussione tutte le certezze e ti fa crescere, a me piace rischiare e vivere fortemente. Decisi così, a 26 anni, di raggiungere l’Italia per collaborare con chef Massimiliano Alajmo. Una bellissima esperienza e una fase importante della mia crescita e della mia carriera”.

In Italia il cuoco è venuto a contatto con tanti ottimi prodotti, con tanti piatti dal sapore unico. “La mia passione – racconta – sono i prodotti del Mediterraneo, le materie prime e gli ingredienti valorizzati nella loro naturalità. In Italia ci sono prodotti eccezionali, quello che ritengo forse il più prezioso è l’olio extravergine di oliva. Adoro tutte le varietà, dal novello, al più intenso o fruttato, da abbinare a diversi piatti e ingredienti, dal crudo al cotto, nella versione più tradizionale fino a quella più creativa.

Poi, ho un debole per la cucina romana. La conoscevo e la proponevo già in Giappone. Fin da allora ho imparato a conoscere ingredienti come il pecorino, il guanciale, sapori che per i giapponesi sono molto intensi e sorprendenti, per questo buonissimi. Considero la ‘cacio e pepe’ la sintesi perfetta tra oriente e occidente, se ci pensate, pasta e pepe arrivano dall’oriente, il pecorino è italiano, un’armonia di gusto, storia e cultura”.

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Vista la notorietà e il talento, in tanti gli hanno chiesto come mai chef Hiro non avesse un ristorante giapponese in Italia o, perché no, uno italiano in Giappone. La sua risposta è in linea con la sua vita, in cui le passioni hanno la precedenza su ogni cosa: “A me piace fare bene una cosa alla volta. Dopo oltre 20 anni dedicati all’alta ristorazione, con ritmi serrati e massimo impegno, grato per tutto ciò che ho imparato sia in Italia che in Giappone, oggi ho deciso di andare oltre, oltrepassare il confine del ristorante, della brigata, della clientela affezionata. Attraverso la mia presenza in tv o sui social media, in giro per l’Italia con i miei eventi o con l’insegnamento nelle accademie di cucina, vorrei poter trasmettere a più persone possibile il messaggio che il cibo e la ristorazione non sono moda, ma cultura, un'arte prodotta dalle mani consapevoli di chi ha fatto un lungo percorso professionale e di vita. Magari un giorno, quando la mia valigia sarà consumata, aprirò una piccola locanda in un luogo a misura d’uomo dove accogliere pochi e gentili clienti come fossero ospiti della mia casa, per assaggiare e gustare insieme ciò che la natura e la stagione ci offre quel giorno, senza menù, senza stress, con un sorriso”.

La cucina giapponese in Italia

La cucina giapponese in Italia arriva nel 1500, quando una delegazione di feudatari giapponesi convertiti dai Gesuiti fece visita a Papa Gregorio XIII. Per quasi 500 anni la conoscenza del cibo giapponese è limitata a questo unico incontro, poi il boom dovuto ad un pioniere, Hirazawa Minoru, che nel 1972 apre a Roma Poporoya e che, visto il successo, bissa nel 1977 a Milano. Messi questi due semi nel fertile terreno italiano, sul finire del millennio c’è stato un vero e proprio boom, con la clientela che in 30 anni ha imparato a gustare i sapori giapponesi. C’è ancora della strada da fare come dice lo stesso Hirohiko Shoda: “Come è capitato per la cucina italiana all’estero, compreso il Giappone, occorrono molti anni prima che una cultura emerga nella sua autenticità. In Italia, la passione per il Giappone è in continua crescita. La conoscenza dei prodotti, delle ricette, delle usanze nipponiche è in espansione e presto si riuscirà a distinguere l’autentico dal non-autentico. Permangono numerose criticità, che tuttavia non sono completamente da demonizzare, in quanto contribuiscono a diffondere l’interesse sul Giappone e sulle sue arti, non solo culinarie. Questa fase di passaggio, apparentemente negativa, è fisiologica ed è alla base di qualunque integrazione. Io sono felice di poter dare il mio contributo”.

Il contributo di Hiro non è tangibile solo dalla tv: il Ministero giapponese dell’Agricoltura, delle Foreste e della Pesca lo ha nominato ufficialmente Ambasciatore della cucina giapponese in Italia, “una grande responsabilità. Non rappresento più solo me stesso, ma il mio Paese. Sono estremamente onorato di aver ricevuto questo titolo con la missione di ‘promuovere il cibo e la cultura culinaria giapponese all’estero', mi rende orgoglioso sapere che il mio lavoro è riconosciuto come ben fatto, etico e portatore di cultura”.

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Ma come valuta la ristorazione nipponica in Italia, un giapponese che tra l’altro fa lo chef? “Molti ristoratori stanno facendo un ottimo lavoro di studio, di ricerca e di perfezionamento delle proprie proposte, faccio loro i miei complimenti, ma molti altri si limitano a soddisfare le richieste più commerciali richieste dal mercato”. Hiro indica anche i tour in Giappone tra le motivazioni per la quale la cucina sta migliorando perché “ormai moltissimi italiani hanno viaggiato in Giappone, hanno gustato la vera cucina giapponese e spero che piano piano sia sempre più facile riconoscere la buona qualità”. Gli abbiamo chiesto se c’è qualche segreto per smascherare i furbetti e Hiro è stato ben felice di dircelo: “Proprio come le basi classiche della cucina italiana per il brodo classico (carota, sedano e cipolla) oppure per un sughetto base (aglio, olio e peperoncino), anche la cucina giapponese si fonda su alcuni ingredienti principali: salsa di soia, sakè, mirin (sakè dolce), katsuobushi (fiocchi di tonnetto essiccato) e alga kombu. In assenza di questi 5 elementi principali non si può parlare di cucina giapponese, pertanto è facile riconoscere i ristoranti più o meno ‘veri’ da quelli più o meno fake”.

Il grande successo di Whashoku

Oltre all’impegno televisivo, Hirohiko Shoda ha scritto due libri. Il primo prende a piene mani dal suo programma sul Gambero Rosso Channel, perfino il titolo, “Ciao sono Hiro”, il secondo è uscito da poco ed è terminato in un batter d’occhio. “Washoku, l’arte della cucina giapponese – tecniche e strumenti” è un libro di ricette, storico e fotografico (le cui foto sono di Alberto Blasetti), che offre uno spaccato ampissimo su tutto ciò che riguarda la cucina giapponese. Il successo è stato immediato: uscito a ottobre, a Natale era già introvabile.

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Foto di Alberto Blasetti

Ai primi di febbraio è tornato disponibile e lo stesso chef non si aspettava un simile riscontro “perché in fondo la cucina giapponese resta un interesse di nicchia in Italia rispetto alla cucina tradizionale, è giustamente impossibile battere pasta, pizza e piatti del cuore, della mamma, della famiglia, per questo sono davvero molto grato, è molto importante esplorare, avere curiosità e voglia di approfondire le culture del mondo. Tutte le cucine sono meritevoli di rispetto e possono essere grande fonte di ispirazione, non devono essere considerate antagoniste, rivali, rispetto alla cucina di casa. Nel 2020 è indice di civiltà cominciare a pensare a livello “mondo”, non “condominio”, dobbiamo unire le forze, non disperderle. Aprendo la mente si cresce e si può vivere meglio in questa epoca storica così difficile che spesso evoca tragici episodi del passato piuttosto che essere funzionale a un futuro migliore”. Il successo di Washoku è dovuto, forse, anche ad un mercato molto scarno in Italia sulla bibliografia della cucina in Giappone. Gli appassionati hanno aspettato questo volume con grande frenesia, ma forse il successo può spingere chef Hiro a nuove fatiche: “È stato un lungo lavoro raccogliere nozioni, elaborare ricette e fare chiarezza sul tema, spesso molte delle informazioni circolanti o delle ricette pubblicate sono piuttosto inesatte, personalizzate o del tutto rivisitate, era fondamentale per me fare chiarezza e dare uno strumento di studio attendibile. Per il 2020-2021 sto lavorando a un nuovo progetto che è ancora in fase di definizione e che andrà a completare il mio progetto sulle arti culinarie giapponesi”.

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Foto di Alberto Blasetti

In Washoku ci sono tante ricette, divise in capitoli in base al tipo di piatto che si vuole preparare, ma qual è la preferita di Chef Hiro? “Voglio ricordare una ricetta della mia infanzia, quella che spesso mia nonna o la mia mamma mi preparavano per il pranzo da portare a scuola, da inserire nel bento, la piccola scatola porta-pranzo giapponese. Si tratta del tamagoyaki, la frittata giapponese tradizionale, a base di brodo dashi e uova, cucinata in una caratteristica padella quadrata e arrotolata. In Giappone i cibi arrotolati sono numerosi, esprimono il concetto di longevità, un augurio di lunga vita per tutti voi”.

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Quello che i piatti non dicono
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